Sono passati più di venticinque anni dai terribili giorni che hanno cambiato la storia dei Balcani del Sud. L’11 luglio del 1995 nell’area urbana di Srebrenica si compiva l’ultimo atto di una serie di violenze e scontri a fuoco che per più di tre anni avevano insanguinato l’area di confine tra Bosnia e Serbia. Le dichiarazioni dell’allora generale serbo-bosniaco Ratko Mladić non lasciavano spazio ad ambiguità: si trattava di una vera e propria “pulizia etnica” che, negli anni a venire, la comunità internazionale avrebbe condannato come genocidio [1].
Tuttavia, è solo la definizione a differenziare il massacro di Srebrenica da altri atti di disumanità avvenuti sul territorio bosniaco nei primi anni Novanta. A Prijedor, Visegrad, Ahmici – giusto per citare le stragi numericamente e mediaticamente più rilevanti – lo “Schema Srebrenica” si era ripetuto secondo le stesse drammatiche modalità. Anche se la comunità bosgnacca è stata effettivamente la più colpita, nessuno dei popoli costituenti l’odierna Federazione di Bosnia ed Erzegovina può essere considerato esente dall’aver perpetrato nei confronti di specifici gruppi sociali progetti di “esclusione” e di “eradicazione” dal territorio. Le stesse decisioni del Tribunale Internazionale dell’Aja, durante il processo di pacificazione, sono risultate piuttosto controverse: le condanne, infatti, hanno riguardato per la maggior parte i criminali di guerra di origine serba, ignorando – spesso in modo sconcertante – la colpevolezza di altri personaggi del dramma bosniaco e alimentando la percezione di un giudizio “etnicamente orientato”.
Poco o nulla si è investigato, altresì, sul “mondo dopo Srebrenica” e sulla vita quotidiana degli uomini e soprattutto delle donne sopravvissute a questi atti di disumana complessità. Negli ultimi dieci anni ho cercato di raccogliere le storie di vita di chi ha provato – e non sempre è riuscito – a ritrovare un proprio posto nel presente. Le vie della ricerca etnografica possono essere molto tortuose, e spesso gli incontri in grado di illuminare un mondo “altro” sembrano nascere dal caso. Così è accaduto con Dževa Avdić.
Quasi per caso, infatti, navigando su un noto social network alla ricerca di pagine che si occupassero di quanto accaduto a Srebrenica, mi imbattei nei commenti di una ragazza, Dževa appunto, le cui posizioni mai eccessive m’incuriosirono. La contattai e in una delle tante chiacchierate virtuali che seguirono scoprii che aveva scritto un libro – My Smile is My Revenge –, in cui raccontava le difficoltà incontrate nel ritrovare il proprio posto nel mondo dopo Srebrenica, ma soprattutto, la sua lotta contro i pregiudizi spesso provenienti dalla parte “amica”, quella comunità musulmano bosniaca che, nonostante tutto, ancora oggi percepisce queste donne sopravvissute come un peso, un problema, una vergogna [2].
Sentii la necessità di incontrare Dževa di persona, per pormi, usando le parole di Susan Sontag, “davanti al dolore gli altri”. La incontrai finalmente in un freddo novembre del 2017. Nonostante qualche imbarazzo, dovuto anche ad alcune difficoltà di comprensione linguistica, Dževa mi aprì le porte della sua storia. Aveva appena sei anni quando, in compagnia della madre e del fratello minore, dopo essere stata separata dal padre a Srebrenica, fu costretta a incamminarsi lungo i sentieri di quella che è stata chiamata la “marcia della morte”, un estenuante e pericoloso cammino nei boschi verso la salvezza: la città di Tuzla. Sopravvissuta alla marcia, tuttavia, Dževa si trovò di fronte a un altro calvario: il travagliato e spesso frustrante tentativo di riappropriasi della propria vita. Come accaduto in altri contesti di conflitto, Dževa e i suoi familiari furono costretti a vivere in “case di altri”, tra le mura di spazi domestici in cui erano ancora vivi i ricordi di chi, di fatto, apparteneva all’altra “fazione” [3]. Dopo innumerevoli cambi di residenza, il percorso di salvezza di Dževa e della sua famiglia trovò rifugio definitivo a Vogošća, piccola cittadina dell’area urbana di Sarajevo.
«Attraverso la scrittura», scrive Dževa nel suo libro, «ho trovato la pace dell’anima, una cura per il mio cuore e una punizione per il male subito». Le sue parole raccontano di una vita segnata da un continuo e doloroso ricostruirsi: dapprima a scuola, con gli amici, poi all’università, dove molti – incluso qualche professore – la additavano come una delle tante «capaci solo di piangere e implorare», vittima di un pregiudizio alimentato da persone che, di fatto, condividevano il suo stesso universo culturale e religioso. Dževa si sentiva tradita soprattutto dalle persone da cui sarebbe stato logico aspettarsi solidarietà e comprensione, anche se non avevano vissuto direttamente il dramma dell’eradicazione e dell’esclusione.
«Luglio è sinonimo d’estate, sole, calore, allegria … per me luglio significa tristezza … freddo nel cuore dell’estate», scrive ancora Dževa. Nel corso di un’intervista, mi raccontò che per diversi anni non riuscì a tornare a Srebrenica, al Memoriale di Potočari, fino al giorno in cui non fu quasi costretta dalla madre a salire sull’autobus che vi si recava. Era l’11 luglio del 2013. Ha ripercorso così, nel suo libro, quei momenti: «Mai prima di allora avevo avuto il coraggio di mettere piede nel Memoriale e questa cosa mi stupiva, ma… semplicemente non potevo… Il primo passo fu molto difficile, sentivo le gambe come se non fossero mie… il silenzio parlava… provai un dolore fortissimo al petto… non riuscivo a controllarmi e in realtà non tentai neanche di farlo… non potevo restare lì per sempre, dovevo fare qualcosa… dovevo parlare… ripagare il mio debito con chi non c’era più… e allora ho deciso di iniziare a scrivere…», come in una sorta di catarsi. Da allora la vita di Dževa è cambiata: il suo sorriso, la vendetta nei confronti di chi voleva che sparisse, è divenuto forza, coraggio, sicurezza nelle proprie idee e nel proprio posto nel mondo.
Con il passare degli anni, molte donne stanno ritrovando la forza di raccontare le proprie storie, cercando di venire a patti con i fantasmi del passato. La storia di Bakira Hasečić, che racchiude il dramma personale, comunitario e di genere vissuto in molte zone dell’Erzegovina, ne è un esempio. Ho avuto la fortuna di incontrare Bakira in Pionirska Ulica – una strada, in parte ancora sterrata, situata nella prima periferia di Visegrad –, nell’ambito di una delle giornate dedicate alla memoria delle stragi avvenute nell’area. Questa strada, apparentemente anonima, divenne tristemente famosa per i drammatici eventi del 14 giugno 1992. Settanta persone tra donne, bambini e anziani bosgnacchi, rastrellate dal vicino villaggio di Koritnik, furono forzate ad entrare nella cantina di una casa; tutte le uscite vennero bloccate, comprese le finestre, e successivamente la cantina fu incendiata con l’utilizzo di esplosivi e benzina. Morirono in cinquantanove nel rogo. I pochi superstiti, scampati in modo rocambolesco alle fiamme, riuscirono a testimoniare contro i mandanti del massacro, i cugini Milan e Sredoje Lukić, condannati poi dal Tribunale dell’Aja a trent’anni di carcere.
Nell’area di Višegrad, però, non avvenne solo questo e la figura di Bakira è divenuta l’involontario e tragico trait d’union di questa geografia della violenza. A pochi chilometri dalla città del Ponte sulla Drina narrata dal premio nobel jugoslavo Ivo Andric, esiste ancora oggi l’hotel Vilina Vlas, con annessa spa, in cui, durante gli scontri dei primi anni Novanta, diverse donne di origine bosgnacca vennero portate con la forza da uomini appartenenti alle truppe serbo-bosniache, per poi essere violentate ripetutamente – in certi casi, le donne venivano riportate a case per alcune ore, per poi essere di nuovo sequestrate, alla stregua di un “gioco” tanto macabro quanto bestiale. L’hotel Vilina Vlas era una vera e propria struttura di detenzione all’interno della quale la stessa Bakira venne stuprata più volte, riuscendo comunque a sopravvivere. Alla sorella, purtroppo toccò una sorte diversa: trovò la morte a seguito delle violenze. Un rapporto stilato già nel 1994 da una Commissione d’Inchiesta istituita con la risoluzione 780 dell’ONU, e confermato dal report redatto dall’Associazione Udruzenje žene-žrtve rata (“Associazione delle donne vittime di guerra”) [4], di cui Bakira è coordinatrice, stimava che le donne stuprate – di cui alcune minori di quattordici anni – tra il 1992 e il 1993 fossero circa duecento; il numero di quelle che trovarono la morte a causa delle violenze risulta ancora oggi imprecisato. Nell’area dell’hotel – che ancora oggi è attivo e propone percorsi benessere e cura – non è rinvenibile né una lapide né un memoriale che ricordi quanto avvenuto.
Se i mandanti e i principali esecutori di questi massacri stanno comunque pagando il prezzo della loro violenza, lo stesso non si può dire per tutti quei militari e paramilitari che si sono occupati, come “volenterosi carnefici”, della “manovalanza” delle stragi – rimasta completamente impunita –, e che Bakira spesso è costretta a incrociare nella sua vita quotidiana. A Višegrad, ma anche a Prijedor e Srebrenica, infatti, alcuni di loro sono persino entrati a far parte delle forze dell’ordine, mentre altri sono riusciti a ottenere ruoli di rilievo all’interno dell’apparato amministrativo della città, continuando, al contempo, ad avere rapporti di vicinato con le proprie vittime. Bakira, affrontando il suo dolore e la sua paura, ha provato più volte a interrogarli sul perché di quanto avvenuto. La risposta è stata tanto banale quanto spiazzante: «Era la guerra».
Questo stato di impunità e mancata giustizia ha portato – e ancora porta – molte donne a vivere il proprio dolore nel silenzio, evitando la “vergogna” di quanto accaduto. Al contempo, però, altre donne hanno cercato di esorcizzare le loro paure, dando un senso alle proprie sofferenze attraverso l’impegno quotidiano. È il caso, ad esempio, dell’associazione Orhideja (Udruženje žena orhideja Stolac), fondata nel 2004 nella cittadina di Stolac, che, oltre a gestire l’attività di un ostello proponendo la vendita di prodotti realizzati da donne di differente origine e culto religioso, porta avanti un’opera di sensibilizzazione sul pericolo delle mine anti-uomo abbandonate nei boschi della zona.
Tuttavia, l’esperienza su cui vorrei soffermarmi maggiormente, anche per il suo valore simbolico, è quella portata avanti dalle donne di Konjević Polje, un piccolo villaggio situato lungo la strada che porta a Bratunac e a Srebrenica – un tempo asse strategico per le truppe serbo bosniache. Il luogo fu teatro di una violentissima pulizia etnica e, nell’aprile del 1993, gran parte degli sfollati trovò rifugio temporaneo proprio a Srebrenica. Oggi a Konjević Polje vivono all’incirca duemila persone, per lo più di religione musulmana. L’associazione Jadar, fondata nel settembre 2003, opera in questo contesto con l’obiettivo di rendere nuovamente fecondi i campi abbandonati, superando le differenze e le diffidenze reciproche: in una realtà in cui è quasi impossibile per le donne trovare un’occupazione, cinquanta di loro, nonostante le differenze di età, religione, etnia, cultura e istruzione, hanno potuto trovare un impiego stabile. La sede dell’associazione, una piccola casa di campagna, si trova inoltre a pochi metri da un luogo che ha ben rappresentato l’assurdità delle guerre che hanno insanguinato queste terre. Dopo il conflitto, su un terreno di proprietà di Fata Orlovic, una donna bosgnacca sfollata con l’intera famiglia nel 1992, fu infatti costruita, nel 1996, una piccola chiesa ortodossa con l’avallo delle autorità della Republika Sprska (“Repubblica Serba”).
Fata ritornò a Konjevic Polje sul finire del 1999 e nonostante la morte del marito, proprio a Srebrenica, nel 2000 iniziò una lunga battaglia legale, dapprima chiedendo alla autorità religiose e civili locali la rimozione dell’edificio, e successivamente, di fronte al silenzio delle istituzioni, rivolgendosi alla CEDU (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo). Quest’ultima, il 1 ottobre del 2019, ha emesso una sentenza con cui ha imposto alle autorità locali l’abbattimento del manufatto (avvenuto poi il 4 giugno del 2021), con il conseguente risarcimento dei danni [5].
Nondimeno, a Konjević Polje si è resa evidente un’altra grande emergenza del paese, in cui ancora una volta le donne stanno avendo un ruolo propositivo fondamentale. Nel novembre del 2013, una quarantina di persone con bambini al seguito, si sono accampate all’esterno dell’ufficio dell’Alto Rappresentante internazionale per la Bosnia, per protestare contro le modalità d’insegnamento nella scuola locale. In una località abitata quasi esclusivamente da bosgnacchi, si continua tuttora a seguire il programma ministeriale proposto dalla Republika Sprska, l’entità a maggioranza serba di cui il villaggio fa amministrativamente parte – un programma che, fino al sesto anno, esclude le materie afferenti al proprio gruppo nazionale. Evidentemente, l’insegnamento della storia rimane uno dei nodi da sciogliere nella difficile integrazione tra le diverse comunità.
Jovan Divijak, generale di origine serba che durante l’assedio di Sarajevo prese apertamente le parti delle vittime, ha ribadito più volte l’importanza del dialogo e del ricordo proprio all’interno delle scuole, attività che lui stesso ha portato avanti fino alla sua morte nel 2021 e che l’associazione da lui fondata, Obrazovanje gradi BiH (“L’istruzione costruisce la Bosnia”), continua a mantenere viva. Nel 2017 ebbi modo di incontrarlo: durante la nostra conversazione, ci tenne a sottolineare che, per la costruzione di un futuro comune della Bosnia, era imprescindibile passare attraverso una corretta lettura storica di quanto avvenuto nel paese – e non solo a Srebrenica. Uno degli obiettivi dell’associazione è infatti quello di abrogare l’esistenza di tre differenti curricula scolastici che, di fatto, prevedono – come nel caso di Srebrenica – narrazioni storiche parziali e contrastanti. Anche nelle scuole, il ruolo delle donne sta diventando sempre più determinante, rivelandosi fondamentale per la costruzione di un paese che ancora oggi non può essere considerato unito. In tempi recenti, ad esempio, Dževa Avdic ha deciso di portare la sua testimonianza nelle classi scolastiche, per trasmettere agli studenti e alle studentesse una maggiore consapevolezza rispetto a quanto avvenuto in un tempo relativamente vicino – un tempo che per molti, nella realtà dei fatti, sembra già molto lontano.
In un paese che ancora oggi è tormentato dai fantasmi e dalle violenze del passato, i drammi e le lotte delle donne di Srebrenica, Visegrad e Prijedor assumono un valore culturale che non riguarda unicamente le forme del ricordo: le loro esperienze dimostrano ancora una volta quanto sia importante dare voce a chi ha impresso nell’animo il marchio della violenza; senza una consapevolezza condivisa, stimolata dal racconto in prima persona delle vittime, la rielaborazione dell’odio – tanto nelle sue forme più esplicite, quanto in quelle più subdole – sarebbe altrimenti impossibile, specialmente per una società che, nonostante il dramma vissuto, si “ostina” a tentare la via della convivenza.
Se agli uomini vanno imputate le ostilità, le violenze e le devastazioni che hanno segnato un’intera area geografica, oggi è alle donne che va riconosciuto il coraggio e il merito di una possibile rigenerazione sociale e culturale: mostrando le ferite subite – nel corpo e nell’animo – hanno ripreso in mano il filo della memoria e del dialogo, e quotidianamente continuano a tesserne la trama, cercando di unire le diverse sensibilità di un paese ancora troppo fragile.
Damiano Gallinaro è dottore di ricerca in etnologia ed etnoantropologia. Attualmente è un ricercatore indipendente affiliato all'Associazione Nazionale Professionale Italiana Antropologia (ANPIA), in cui ricopre il ruolo di consigliere e coordinatore della commissione "Città, spazio e territorio".
Questo articolo è un estratto di Alea: Odio (2022), che fa parte del ciclo di volumi in italiano raccolti in Archivio 2124.
[1] Per un primo approfondimento su quanto accaduto a Srebrenica consiglio l’applicazione per smartphone Srebrenica 2.0, ideata dal Memorial Center of Srebrenica in collaborazione con l’ARCI di Bolzano, e finanziato dal MAECI (Ministero degli Affari Esteri e Cooperazione Internazionale).
[2] Giunto alla seconda edizione sia in lingua bosniaca che in lingua inglese, Moj Osmijeh je Moja Osveta (My Smile is My Revenge), è al momento una delle poche opere testuali che affronta la vita “dopo Srebrenica”. La pubblicazione ha provocato reazioni forti e contrastanti, sia in patria che all’estero, divenendo un successo editoriale inaspettato, una sorta di bestseller della memoria. Dževa negli ultimi quattro anni è stata spesso oggetto di minacce e offese per via delle sue posizioni.
[3] In merito alla “strategia di sostituzione” consiglio la visione del film Skhvisi Sakli – House of Others (2016) della registra georgiana Rusudan Glurijdze, ambientato nei primi anni Novanta, durante la guerra civile tra Abkhazia e Georgia, in cui l’occupazione delle “case degli altri” viene raccontata in modo struggente e realistico.
[4] L’associazione ha prodotto un documento fondamentale per la ricostruzione delle violenze perpetrate in Bosnia Erzegovina dal 1991 al 1995 – Monography about war rape and sexual assault in war in Bosnia Erzegovina – curato dalla Dr.ssa Sahila Duderija e stampato in soli 500 esemplari difficilmente reperibili. Un altro testo, più facilmente reperibile, è: I begged them to kill me. Crime against the women of Bosnia-Erzegovina, pubblicato dal CID (Center of Investigation and Documentation of the Association of Former Prison Camp Inmates of Bosnia Erzegovina).
[5] Gli accordi di Dayton del 1995 hanno sancito il diritto al libero ritorno dei rifugiati nelle loro proprietà, cercando in qualche modo di porre rimedio a quel processo di appropriazione indebita dei beni e delle proprietà di chi coattivamente era stato costretto ad abbandonare la propria comunità.