Tramot

Andrea Ferri / Variazioni

22 dicembre 2022


Immagine generata dall'intelligenza artificiale DALL-E 2 — Open AI



Tramot.

Terremoto al paese si dice tramot.

C’è un tempo prima del tramot e un tempo dopo il tramot. Il tempo prima del tramot è uguale per tutti, vite che scorrono lisce come olio d’oliva appena spremuto.

Il tempo dopo il tramot è una crepa che ci separa.

Da una parte ci stiamo noi, i sopravvissuti al crollo della scuola, sedici tra bambine e bambini. Ora le nostre cicatrici sono carne pallida che rompe la perfezione dell’epidermide. Ci siamo ricoperti di peli, teniamo fianchi larghi e qualche figlio messo al mondo, e ci chiediamo ogni notte, anche se nessuno di noi lo dice, come abbiamo fatto a scamparla quel giorno di vent’anni fa.

Dall’altra parte ci stanno le vittime e i loro parenti. E da vent’anni ci guardano con odio al di là del burrone che ci divide.

«Siamo carne masticata male che gli si è incastrata nel gargarozzo» dice sempre ma’, poi aggiunge: «spero ci si strozzino».

Ma’ li chiama l’esercito dei morti. Sono una trentina e dopo il tramot, si siedono in chiesa tutti dallo stesso lato. Noi sopravvissuti siamo il loro destino negato, la prova vivente di una felicità che non è finita schiacciata sotto quintali di pietre.

Frequentano tutti lo stesso bar, hanno occhi spenti intrappolati su visi lividi di chi non dorme più. Strascicano le suole, vestono di scuro e si dice che abbiano fermato gli orologi alle 9.30. Quando ci incrociano per il paese cambiano strada, abbassano il mento e ciancicano parole a voce bassa.

Turi è stato il primo. Il tramot gliene ha portati via due. Ce lo siamo trovati all’uscita di scuola, aveva una spranga incrostata di ruggine così pesante che gli tremava in mano. Era bianco in faccia e se ci passavi vicino sentivi puzza di alcool e sudore. Tutti ci voleva ammazzare. L’avevano fermato prima che ci saltasse addosso. 

Grazia è da vent’anni che non parla più a sua sorella. Quando Diana la andava a trovare, lei la lasciava fuori e le urlava di sparire. Solo la scomparsa della sorella e della nipote l’avrebbe ripagata della morte del suo Tano. Lei non avrebbe più potuto vederlo crescere, comprargli vestitini da sfoggiare alle feste.

Io non lo so come se ne esce.

Fosse per ma’ dovremmo accopparli tutti, così da alleviare la loro sofferenza e poter vivere in pace, ma questo riguarda solo ma’ e i nostri genitori, per noi è diverso. Loro non devono convivere con la colpa di essere ancora qui.

L’anno scorso, al funerale di Nunzio, tutti c’erano. L’esercito dei morti al gran completo. Per la prima volta dopo anni portavano l’abito buono, i capelli lavati e pettinati. Tutti c’erano a guardare la bara mentre veniva infilata nel buco, fatta su coi mattoni: fissavano la scena come per essere sicuri che la morte potesse colpire anche noi. Alcuni di loro piangevano, ed è per questo che ci è venuta l’idea, il nostro modo per portarci via da qui, per vomitare fuori l’odio e la colpa, una volta per tutte.


Qua dentro è buio pesto, l'odore di truciolato opprime. Il falegname ha fatto i buchi ai lati delle bare per permettere all’aria di entrare. Non sono bare vere, ma riproduzioni più economiche e leggere. Ce n’è una per ognuno di noi sopravvissuti, ci siamo infilati dentro stamattina prima che tutti loro arrivassero. È stato difficile convincere i nostri genitori a partecipare. Li abbiamo persuasi dicendo che era una carnevalata per vedere le facce che avrebbero fatto quelli là. In realtà crediamo molto in questo rito. Il prete ha capito che è l’ultimo tentativo per sanare la crepa che continua a buttare su sangue. Vent’anni vissuti così sono troppi, non te li ridà indietro nessuno.

Ora basta. 

La voce di Don Pino entra dai fori, sento la sua orazione funebre. Ci sta consegnando alla morte, stiamo per raggiungere i nostri compagni di classe. Mi immagino la fila di bare disposte sul sagrato, da un lato i nostri genitori. Chissà se stanno piangendo, se stanno fingendo dolore.

Dall’altro l’esercito dei morti. Me li immagino vestiti bene, che piangono, che si torcono le mani. Sento la bara che viene sollevata, ci stanno spostando nel cimitero.

Ci infilano nei loculi vuoti, poi ci fanno su con mattoni e lapide. Tutto deve essere reale. Dentro la bara teniamo una bomboletta di ossigeno con la mascherina, possiamo respirare per tre ore. Abbiamo fatto le prove. Sento la spatola che sparge il cemento. Tutto si fa nero quando infilo la mascherina, chiudo gli occhi e mi lascio andare.

Gli operai ci hanno liberati quando tutti se n’erano già andati. Erano addestrati per farlo in fretta, evitando di rovinare le lapidi che poi sono state rimesse a posto.

Una volta uscito, sono rimasto solo di fronte alla mia lapide. Con i polpastrelli sfioro l’ovale che contiene il volto di me bambino. Vent’anni dopo il tramot sento che ora posso convivere, che ora tutti possiamo convivere, con quella crepa che ci ha lacerati.

Esco dal cimitero mentre il sole è basso e tinge il paese di un rosa metallico, supero il

cancello e prego affinché la morte e l’odio non mi seguano oltre la soglia.



*Andrea Ferri (1985) è laureato in Cinema e lavora nell'ambito della comunicazione digitale. Collabora con diverse associazioni per l'organizzazione di eventi culturali di letteratura e cinema. Ha pubblicato racconti in antologie e scritto sceneggiature per cortometraggi.


Per sempre indipendenti

La linea editoriale di Alea è e sarà sempre indipendente, provocatoria e indisciplinata. Il nostro budget dipende esclusivamente dalla partecipazione dei lettori e delle lettrici al progetto. Ed è solo a loro che rispondiamo. Devi sapere che il 50% dei nostri costi è interamente dedicato alla retribuzione degli autori e dell’autrici della rivista. È una cifra importante, ma siamo convinti che nel nostro piccolo sia fondamentale valorizzare il lavoro culturale e di ricerca scientifica. Inoltre, è grazie a chi ci sostiene che possiamo mantenere aperto questo spazio, rendendo sempre più accessibile Alea con contenuti e approfondimenti di qualità. Se ti piace quello che stiamo facendo, abbonati alla rivista.

Abbonati ora