Tramot

di Andrea Ferri


Immagine generata dall'intelligenza artificiale DALL-E 2 — Open AI



Tramot.

Terremoto al paese si dice tramot.

C’è un tempo prima del tramot e un tempo dopo il tramot. Il tempo prima del tramot è uguale per tutti, vite che scorrono lisce come olio d’oliva appena spremuto.

Il tempo dopo il tramot è una crepa che ci separa.

Da una parte ci stiamo noi, i sopravvissuti al crollo della scuola, sedici tra bambine e bambini. Ora le nostre cicatrici sono carne pallida che rompe la perfezione dell’epidermide. Ci siamo ricoperti di peli, teniamo fianchi larghi e qualche figlio messo al mondo, e ci chiediamo ogni notte, anche se nessuno di noi lo dice, come abbiamo fatto a scamparla quel giorno di vent’anni fa.

Dall’altra parte ci stanno le vittime e i loro parenti. E da vent’anni ci guardano con odio al di là del burrone che ci divide.

«Siamo carne masticata male che gli si è incastrata nel gargarozzo» dice sempre ma’, poi aggiunge: «spero ci si strozzino».

Ma’ li chiama l’esercito dei morti. Sono una trentina e dopo il tramot, si siedono in chiesa tutti dallo stesso lato. Noi sopravvissuti siamo il loro destino negato, la prova vivente di una felicità che non è finita schiacciata sotto quintali di pietre.

Frequentano tutti lo stesso bar, hanno occhi spenti intrappolati su visi lividi di chi non dorme più. Strascicano le suole, vestono di scuro e si dice che abbiano fermato gli orologi alle 9.30. Quando ci incrociano per il paese cambiano strada, abbassano il mento e ciancicano parole a voce bassa.

Turi è stato il primo. Il tramot gliene ha...
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Il Tuono nel cuore dell'odio

di Andrea Benei

Luglio 2015, Tuono Pettinato ed io cerchiamo refrigerio da un’estate che all’epoca era la più rovente della storia. Naturalmente siamo a Pisa. Gelato di ordinanza alla mano, parliamo dell’idea di un manuale di sopravvivenza/manifesto contro l’estate, intitolato provvisoriamente – ça va sans dire – "Odio l’estate". A un certo punto gli chiedo se non sarebbe più interessante un libro che elenchi tutti i fenomeni, le questioni e le tipologie umane che il grande Tuono Pettinato considera odiabili. Con la semplicità di chi esercita spesso un talento straordinario, dice soltanto: «Un odiario». Circa un anno dopo, L’Odiario è messo in stampa per i tipi di GRRRz, di cui ancora oggi sono un felice militante. Un libro poco aderente alla linea di GRRRZ, secondo l’allora direttrice editoriale. Un libro che, tuttavia, rimane forse il più intimo della sua produzione edita. E le ragioni dipendono fondamentalmente da quella forma particolare di odio di cui Tuono intendeva parlare Quest’analisi, veritiera quanto foriera per Tuono e per me di nuove soddisfazioni, mi ricorda le ragioni per cui quel libro oggi rimane il più intimo, forse l’unico esplicitamente intimo della sua produzione edita. Tutte ragioni connesse a quell’odio di cui il libro intendeva parlare.



© Tuono Pettinato, L'Odiario, GRRRZ, 2016.


 

Andrea – Paggiaro, il nome mortale di Tuono Pettinato – era perennemente impegnato nei progetti di ben più noti editori e L’Odiario, pur tanto desiderato, doveva per forza di cose essere composto nei ritagli di tempo. Allo scopo di snellire la mole di un simile progetto immaginai, in primis, non un solo libro, ma una piccola serie di tre o quattro volumi che potesse valorizzare a pieno le...
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Il campiello

di Giulia Callino


Campiello del Remer © Wikimedia Commons, 2012.



Quella domenica raggiungemmo Mariasole e le sue coinquiline per un picnic nel campiello appena sotto la loro casa – un luogo appartato, circondato su tre lati da palazzi e affacciato su un canale, situato appena dietro a Campo San Polo, ma che poteva essere raggiunto solo conoscendo la strada. Quest'ultimo aspetto dava una sensazione grande ma anche molto precisa: quella di essere abbastanza vicini a un luogo molto noto di una città da avvertirne l’aura vasta e vivace, ma, al tempo stesso, esperti a sufficienza da limitarsi a lambirlo e a viverne la quieta abitudine, come i suoi abitanti.

 

Dalla fermata del vaporetto avevamo camminato svelte, fermandoci a comprare vicino a Rialto una vaschetta di gelato che, una volta arrivate da Mariasole e trovando spalancati sia il portone di legno da basso che la porta al primo piano, avevamo riposto nel frigorifero, mentre dal salotto arrivava una musica allegra. Mariasole apparve da un’altra stanza con alcune ragazze che non avevo mai visto e ci salutò con grande affetto. Poi ci diede indicazioni e iniziammo a portare giù per le scale le stoviglie, i bicchieri, alcuni cuscini, una teglia di crespelle, mentre una delle altre ragazze controllava la cottura di alcuni voulevant nel forno. Scegliemmo di distendere i teli sul limitare del campiello, nel punto più vicino all'acqua, in una posizione da cui si poteva intravedere un enorme lampadario in vetro di Murano, appeso in una sala all'ultimo piano del palazzo oltre il canale. Il sole era caldo e annunciava l’arrivo dell’estate.


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Assemblare la disabilità

di Chiara Montalti


Inside the Asylum © V2osk, Unsplash, 2018.




L’enfasi, insomma, non va posta su ciò che puoi fare per me,

ma piuttosto su ciò che possiamo creare insieme.

—Kelly Fritsch, Intimate Assemblages


Quale quadro interpretativo appare più fertile per analizzare la disabilità? I Disability Studies presentano i limiti di un quadro specifico: il modello medico-individuale. I termini ‘medico’ e ‘individuale’ vengono considerati tanto interrelati da costituire, appunto, un unico modello, che tende ad oscurare la dimensione politica, sociale, culturale ed economica della disabilità. 


Criticando tale modello, non si sconfessa l’accesso a percorsi terapeutici; non è d’altra parte necessariamente il mondo medico a reiterarne i presupposti: questi possono essere rafforzati, per esempio, dalle rappresentazioni mediatiche, dal “management” della disabilità in ambito scolastico, dalle modalità in cui questa esperienza viene decodificata all’interno di un contesto familiare e comunitario. Quando tuttavia la disabilità viene intesa come una realtà d’interesse unicamente medico, si pone attenzione sulle traiettorie di cura e “aggiustamento”, con l’obiettivo di ripristinare tanto un’apparenza quanto una funzionalità considerate “normali”. L’aspirazione alla cura è ritenuta indubbia, laddove la negoziazione con tale possibilità viene invece imbastita in maniera diversificata all’interno di ogni traiettoria di vita. In aggiunta, è particolarmente improduttiva, oltre che illusoria, l’enfasi sulla natura individuale della disabilità. Oltre a depoliticizzarne i contorni, e ad astrarla dal contesto socioculturale di riferimento, questa prospettiva tende a rinforzarne un’interpretazione tragica a livello biografico. La narrazione dominante, secondo cui essa equivale soltanto a perdita, carenza, difetto, sfortuna, rende difficile l’emersione di esperienze neutre o positive. 


Alla disabilità devono...
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Benedetta finanza

di Carlo Ludovico Severgnini


Marinus van Reymerswaele (1490-1546), The Banker and Its Wife.



Un uomo, chino su un tavolo, sposta alcuni spiccioli su una scacchiera, prendendo appunti su un piccolo quadrato di pergamena. La fioca luce del crepuscolo gli suggerisce di sbrigarsi con le equivalenze per non consumare una preziosa candela. Contate le ultime monete, soddisfatto rimette il denaro in una sacca che poi sistema in un baule alla presenza del suo superiore, a cui deve consegnare il foglietto con i conti della giornata. Adesso non è più un problema suo, saranno altri a sbrigarsela mentre lui si gusterà la sua zuppa calda.


Abbiamo fatto la conoscenza di uno dei contabili di un importante prelato, il vescovo di York, che ha un piccolo problema logistico: deve far arrivare a messere il Papa la colletta di fondi che il pontefice ha richiesto per finanziare nuove guerre contro gli infedeli. Purtroppo, l’internet home banking ancora non è una realtà nell’Europa del XIII secolo e mandare un gruppo di cavalieri con il denaro è troppo rischioso, perché, per quanto numerosa e leale la scorta, se circolasse la notizia che un forziere con quindicimila sterline trotterella per l’Europa sarebbe facile preda per chiunque1. Il devoto vescovo si sta scervellando per trovare una soluzione e un suo anziano consigliere, che di esperienza ne ha, assicura che anni prima, quando si era recato in pellegrinaggio a Roma, aveva visto che il signor Papa aveva ricevuto ingenti somme inviate da ogni angolo del continente. Come avevano fatto migliaia di lire a finire nelle casse papali da Buda? È semplice: sono stati quei diavoli d’italiani.


Dalla fine del secolo XI la Chiesa occidentale ha individuato nel vescovo di Roma il proprio capo (la questione...
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Ricerca per Dottorato di Antropologia

di Emanuele E. Carloni

Dall’Enciclopedia-Dizionario Monolingua Terrestre-Terrestre: Fatigue, 苦労, ermüdung, fatiga, fatica, fatiga-æ, усталость, fadiga – Stato di un essere che ne provoca una riduzione delle prestazioni e delle funzioni corporee. Può essere “spirituale” o “dell’animo” quando il corpo non è necessariamente affaticato, ma il complesso del suo sistema nervoso si immagina in tale stato al punto da influenzare il resto dell’organismo.


Gli esseri umani, evolutisi repentinamente da preda a dominatori della catena alimentare, hanno involontariamente posto la fatica alla base di gran parte delle attività considerate basilari a tutte le loro comunità: lavoro, procreazione, scalata sociale e perfino il nutrimento (fenomeno riscontrabile nella crescente difficoltà delle preparazioni di cibo nel susseguirsi dei secoli, nonostante la mancata evoluzione dell'apparato digerente degli esseri umani). La centralità della fatica in queste attività è stata ulteriormente messa in luce dai recenti studi di Neo-filologia antropologica sulla circolarità delle assonanze (cfr. Studi Uberlinguistici della Scuola di Saturno) del termine fatica in lingue terresti diverse: è ben nota la cosiddetta proporzione filologica dello sfruttamento capitalistico terrestre, osservato in alcuni paesi del continente europeo:

 

Lavoro (IT, “lavoro”): labor (EN, “lavoro” ma anche “doglie”, ovvero fase di dolore causato dalle contrazioni uterine durante il parto) = travail (FR, “lavoro”): travaglio (IT, insieme di fatiche, ma anche fase finale del parto femminile che comporta dolore e affaticamento nel partoriente).

 

La proporzione, oltre a racchiudere concetti che stanno alla base dell’ideologia capitalista, come la produzione e la riproduzione, che hanno dominato l’esistenza degli uomini sul globo terrestre, mostra come ognuno di questi termini sia legato alla fatica. Nonostante la maggior parte dei terrestri non si renda conto di questa correlazione, il progresso della loro civiltà ha portato a un generale aumento...
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Qualche pixel di sudore

di Gabriele Raimondi

«Come se, nel dirgli che Babbo Natale non esisteva / suo padre volesse anche iniziarlo al materialismo storico / lasciandogli intendere che il Sega Master System nuovo di pacca / che avrebbe trovato sotto l'albero / non era arrivato dal mondo dei balocchi su una slitta trainata da renne / ma era frutto di quella piccola parte di plusvalore che la lotta di classe / era riuscita a sottrarre ai padroni».

Spartiti, Babbo Natale

 

Se chiedessimo a qualcuno di esemplificare il concetto di fatica, molto probabilmente otterremmo un elenco di immagini legate al mondo del lavoro e, quasi certamente, salterebbe fuori la rappresentazione della catena di montaggio di una fabbrica. I videogiochi, cui solitamente è associato un universo virtuale di meraviglie, creatività e fantasia, difficilmente verrebbero presi in considerazione. Eppure, negli ultimi tempi, di “industria videoludica” si fa un gran parlare, spesso con toni entusiasti che, a ben vedere, pregiudicano un'analisi approfondita di questa definizione: riducendo all'osso la questione, parlare di industria significa ammettere che anche il tanto idealizzato "paese dei videobalocchi" affonda le sue radici nello sfruttamento di forza lavoro.


Una prima evidenza è data proprio dallo sforzo produttivo che la realizzazione di certe opere videoludiche richiede; opere la cui complessità è aumentata proporzionalmente al loro costo umano: basti pensare al tema dei diritti sul lavoro, che di recente è emerso più e più volte in relazione a pratiche molto diffuse come il cosiddetto crunch time, ovvero l'aumento esponenziale ed esagerato della pressione lavorativa sui dipendenti in momenti ritenuti "caldi" (per esempio vicino alla data di pubblicazione di un prodotto). Il problema di molte delle analisi critiche sul crunch, tuttavia, sembra...
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La via del latte: mungitori punjabi e vacche nostrane

di Satya Tanghetti

Il 60% dei lavoratori negli allevamenti e nei caseifici che compongono la filiera del latte in Nord Italia proviene dallo Stato indiano del Punjab. Questo dato, fornito dal BBC Magazine e supportato da altre testate giornalistiche ed enti di ricerca, spicca per la sua singolarità e non può non suscitare l’interesse di chi, abituato alla ricerca qualitativa, si trova di fronte a una percentuale così squilibrata. Un primo approfondimento di tipo storico e sociologico è utile per mettere in luce il motivo di questa preponderanza: a partire dagli anni Ottanta nell’ambiente degli allevamenti si è diffusa una credenza per cui i lavoratori indiani, in quanto hindu, siano particolarmente inclini a essere impiegati come mungitori, perché legati alle vacche da una relazione devozionale1.



Vacche a riposo all'interno di una stalla © Alea, 2022.



Il dato reale che giustifica lo stereotipo è che in media i lavoratori punjabi ottengono più latte dalle mucche che mungono. Perché le vacche producano alti quantitativi di latte i loro livelli di ossitocina devono essere elevati; questa condizione impone di instaurare all’interno delle stalle una routine abbastanza rigida dove le parole d’ordine sono calma e gentilezza. A Novellara, un comune del reggiano che raccoglie una delle più nutrite comunità di punjabi presenti in Italia, incontrai Sukhvir, mungitore con più di quindici anni di esperienza. Mi accolse nella cucina di casa sua e insieme parlammo del suo lavoro. In qualità di interprete, per espressa volontà di Sukhvir, partecipava anche la figlia adolescente Amaneep: «[Mio padre] dice che praticamente bisogna essere calmi e tranquilli. Perché alcune persone sono anche molto aggressive quando lavorano in una stalla e [quando] devono raccogliere [condurre] alcune mucche per mungerle sono...
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Foto ricordi dall'Albania

di Giulia Zotaj


Adi e Angela, prossimi al matrimonio, vivono da qualche tempo per conto loro in una casa in affitto a venti minuti dal ristorante in cui lavorano con il nonno di lui, il quale invece vive accanto al locale. Mentre scendiamo dal monte Tomor, lo zio della ragazza sente che può mettere parola sulle loro scelte: è infastidito e li giudica come viziati perché non sono rimasti a vivere con il nonno, che pure dispone di una grande casa e che, a detta sua, «non sa stare senza di loro» perché «sono la luce dei suoi occhi».




Quando ci distacchiamo dalla tavolata e usciamo in cortile per fare due chiacchiere con Ermal, sua madre ci segue e ascolta avidamente la nostra conversazione, stando a lungo in silenzio, finché non menziono quella volta in cui mia madre fu segnalata nella bacheca pubblica comunale per aver indossato un capo di vestiario proveniente dall’estero, considerato “sconveniente” dal regime. A quel punto, la madre di Ermal ci parla di come le sia sempre piaciuto danzare e di quel suo professore di ginnastica che, vedendola ballare un pezzo rock alla festa di fine anno, le disse di smetterla di fare la “troia", intimandole di allontanarsi da lì.




Dijan mi racconta che oggi più che mai vorrebbe lasciare la sua vita rischiosa in Italia e tornare in Albania; dice che lì avrebbe una serenità e una tranquillità che qui non riesce a trovare. Per tutta la vita ha lavorato illegalmente in diversi paesi europei, non riuscendo mai a crearsi una famiglia o a trovare una stabilità personale. Guarda i giovani albanesi e dice che non pensano ad altro che a fare soldi e scappare dal loro...
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Faticate

di Gabriele Barbarino

#1

Trascino

Trasudando

Tra i vestiti

Tutto coperto,

Un trolley

Che trasloca

Tre tesori.

Traballa

Tralasciando

Pepite,

Appena

Urtato

Il primo

Gradino,

Dovrò

Ritrarre

L’albero

E aspettare

Che una chiamata

Dall’alto

Mi spalanchi

La porta

Per il sesto piano

Dove i miei tesori

Saranno

Al sicuro

Tutto l’anno.


#2

Al quinto

Piatto

Di kebab

Comincio

A pensare

Che credo

Troppo

E solo io

A un’equa ridistribuzione

Delle ricchezze.

Tutte scuse

Cara ameba

Che ciondoli

Nel mio cranio,

Adesso

Finisci

Quella cocacola...


#3

Non sapere

Se

Ho superato

Le 5000

Docce

In vita mia,

Fa di me

Un atleta mancato

Con un record

Del tutto

Infondato.


#4

Raggiungere

In tempo

I posti

Senza perdersi

È spesso

Solo

Il primo

Di una

Lunga

Settimana

Di problemi.



*Gabriele Barbarino nasce ad Enna nel 1992. Comincia a scrivere testi di canzoni in rima all'età di 14 anni, passione che coltiva ancora. Da tre anni a questa parte la sua ricerca si sposta con serietà e dedizione nel mondo della poesia vera e propria. Oggetto di studio sono le relazioni tra suono/parola e rumore con implicazioni ed azioni evasive nei confronti del nostro sistema linguistico, a favore della creazione di immagini che superino in qualche modo la realtà.


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Good women

di Chiara Tonon


Fine giornata, quartiere slum, Gulu (2019) – Fotografia dell'autrice



Nei quartieri informali dell’Uganda settentrionale, ogni casa ha una veranda. Si tratta di un gradino ampio circa un metro che precede l’ingresso dell’abitazione, riparato da un tetto in lamiera vagamente spiovente. È uno degli ambienti domestici più vissuti, luogo privilegiato per fare i mestieri e osservare la quotidianità altrui. Dal mattino e fino a sera, la veranda di ogni residenza è animata dalle attività domestiche di donne, ragazze e bambine.


Alle sei e mezza, su quel gradino, le donne di casa riempiono d’acqua i catini e cominciano le faccende, a partire dalla pulizia di latrine e pavimenti; dopo aver spazzato, inumidiscono uno straccio, lo sbattono a terra e lo trascinano all’indietro con le mani, disegnando una lunga “esse”, muovendosi da sinistra verso destra, con le braccia parallele tese a far pressione sullo straccio, il busto piegato rigido a formare con le gambe un angolo di quarantacinque gradi. L’azione viene ripetuta più volte al giorno, quando si accumula nuova sporcizia o si creano depositi piovani. Poi, nell’arco della giornata, si accende il fuoco, si predispone il cibo per cucinare, si lavano le stoviglie, si fa il bucato per tutta la famiglia. E ancora, si recupera l’acqua dal pozzo caricando la tanica da venti litri sulla testa o sulla spalla, si fa la spesa al mercato, ci si prende cura dei bambini.


Ogni attività richiede resistenza, tempo e programmazione. Lavare i panni, ad esempio, è un’arte che implica ore di gambe tese, schiena curva e movimenti decisi. Osservando dalla veranda, si ha l’impressione che tutte le donne abbiano incorporato...
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Rose

di Sebastiano Montesi

SUNSHINE BOUQUET COMPANY – AVENIDA LA CONEJERA, BOGOTÀ (COLOMBIA) – 8 FEBBRAIO


Su un muro della factory c’è una scritta rossa, in stampatello: CUANDO SE TRABAJA EN EQUIPO, EL EXITO Y LOS TRIUNFOS DE SE CELEBRAN EQUIPO.


L’uomo che lavora ha le mani guantate. Guanti rosa in silicone opaco. Intinge il panno in un secchio d’alcool e lo lascia a mollo un paio di secondi. Il silicone protegge le mani dalle ustioni. La scritta in stampatello è alle sue spalle, appena sopra la testa. L’uomo passa il panno sulle lame della forbice, lentamente. Le chiude e le riapre a scatto, due volte. Il taglio dev’essere effettuato alla base del gambo con un’angolatura di quarantacinque gradi. L’uomo sa come tagliare.

La donna afferra la rosa dalle mani dell’uomo e la ripone in un secchio di acqua calda. Anche lei indossa dei guanti in silicone. Ma i suoi sono più lucidi, più nuovi. Quando i loro guanti si sfiorano a mezz’aria fanno un suono cigolante. La donna recide le escrescenze del gambo con un taglio netto

delle forbici – forbici più piccole, più adatte alle sue mani. Il taglio del gambo in immersione previene l’embolia gambale dello stelo – impedisce che le bolle d’aria ostacolino l’assorbimento completo dell’acqua. L’idratazione all’interno della rosa dev’essere perfetta. La donna sa come tagliare.


Sul muro alle sue spalle c’è una scritta azzurra, in stampatello. L’uomo guarda la donna e sorride. Legge solamente una parte della frase. Il resto è coperto dal viso della donna. EL ESFUERZA ... NUESTRA LABOR.


Dagli altoparlanti della factory esce Video Killed The Radio Star dei...
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Tra gli strati

di Miriam Eleonora Barosco & Marika Jasmine Grasso

Riflessioni sulla produzione del lavoro “Beyond the Touch-screen” dell'artista Marika Jasmine Grasso (Marzo, 2021).



Beyond the Touch-screen (2021), Touchscreen un-layered con filo di cotone, fotografia di Marika Jasmine Grasso.




Beyond the Touch-screen (2021), Touchscreen decostruito, fotografia con iPhone di Marika Jasmine Grasso.




Beyond the Touch-screen (2021), Foglia dorata su schermo con polvere d'oro, fotografia di Noémie Soula.




Beyond the Touch-screen (2021), Touchscreen decomposto, fotografia di Noémie Soula.



Il lavoro “Beyond the Touch-screen” (2021) si occupa di rivelare il fascicolo di strati che costituisce il touchscreen. L’oggetto è decostruito, quando oramai è in disuso, scoprendone la corporeità nascosta che rimane normalmente sconosciuta ai suoi utilizzatori.


Miriam Eleonora Barosco: Mi ritrovo a leggere gli appunti che Marika ha steso durante la sua residenza artistica online Transient. Entro nell'intimo della sua ricerca. Attraverso le sue parole, scopro il processo da cui traggono origine le sue ricerche e le manipolazioni compiute sui touchscreen. Finora ne conoscevo solo il risultato. Nell’isolamento del lockdown, Marika ha trovato lo spazio e il tempo di scomporre il touchscreen. Il formato raccolto e le dimensioni ridotte dello smartphone si sono prestate perfettamente all’impossibilità di accedere al laboratorio dell'università, luogo vitale per la sua ricerca di dottorato.


Marika Jasmine Grasso: Marzo 2021, Sheffield. Dopo un anno di lockdown tra restrizioni più o meno rigide, ho l’opportunità di prendere parte ad una residency online. Si tratta di una settimana di solitudine creativa e comunicazione tramite la fisicità dello smartphone, e raccontata attraverso l’uso del mio account personale e di quello della curatrice su Instagram. 


Miriam: Le chiedo come le siano sembrati gli strati metallici, di vetro e i film isolanti e adesivi che formavano il touchscreen. Voglio capire quali siano...
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Melachioda

di Altea Villa

Le labbra pallide indicano carenza di ferro, mi dicono. La debolezza – astenia –, i giramenti di capo – vertigini –, tutti segni che qualcosa manca, nell’organismo. Un minerale – ferro – mi viene in mente. Sapore sanguigno. Gli integratori sullo scaffale della farmacia sono esibiti in brune boccette di vetro o in candide di plastica. Mia nonna mangiava la melachioda. Per due giorni cerco senza sosta in tutta la casa: finalmente li trovo, in una scatolina delle caramelle balsamiche. Sette chiodi di ferro – puro, nessuna lega – che metto a bollire nell’acqua. Poi prendo una mela grinzosa e li pianto uno a uno. La sera dopo, li tolgo. Appoggio la narice su ogni foro annerito, cerco come un cane di trovare la scia olfattiva. Mangio la mela, bevo il succo di ferro.

 

Non mi piacciono gli integratori perché sono bianchi, perfetti, lisci e minuscoli: non hanno sapore, vengono giù con un po’ d’acqua ed è come se nulla fosse passato dentro di te. Non lo senti scorrere, il minerale. Non puoi nemmeno immaginarlo farsi strada al tuo interno, rimpolpare le vene quasi asciutte. Vene di carne, vene di terra: son tutte vene quelle che ci percorrono. Comincio a cercare, a leggere. Non riesco a toccare la tastiera, le dita mi scivolano sulla plastica lucida. Sulle pagine di vecchi libri la cellulosa mi aiuta a non perdere il filo. Cerco segni di geofagia. Cerco la giustificazione al bisogno, che sento, di mettermi la terra in bocca, di riempirla di saliva e mandarla giù, in fondo allo stomaco, nella mia miniera, nelle mie vene. Lo facevo nell’infanzia, ma gli adulti intorno a me non volevano, mi strappavano le zolle dalle...
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Riflessioni pedonali dalla città furiosa

di Caterina Morbiato

«Quello che mi manca di più di Città del Messico è passeggiare. A San Salvador non lo posso fare» mi disse qualche anno fa Oscar, un amico salvadoregno che tempo addietro aveva vissuto nella capitale messicana per un lungo periodo. Scandiva tali parole con un pizzico di invidia e una gran malinconia, mentre passeggiavamo nel Zócalo, la piazza principale di Città del Messico, che in quell’occasione era affollata dalle bancarelle del festival annuale dei libri. Oscar avrebbe partecipato a un dibattito sulla migrazione centroamericana e si sarebbe poi fermato qualche giorno in più per godersi la città. Avanzavamo lentissimi, come se ogni singolo passo necessitasse di una forza immane per potersi poi perpetuare in un altro tempo, un altro spazio. Ricordo di avergli sorriso, cercando di decifrare cosa volesse dire. In realtà non ci riuscivo.


Mesi dopo, nell’autunno del 2015, mi trasferii a San Salvador, la capitale de El Salvador, per condurre una ricerca etnografica. Col passare del tempo la questione del camminare divenne un’ossessione. Amici e conoscenti non facevano altro che scoraggiare il mio “impeto pedonale”, ripetendomi quotidianamente frasi come: «È troppo pericoloso!», «Le strade sono deserte: è meglio se prendi un taxi», «Non dovresti uscire quando è già buio» o ancora «In centro è meglio non metterci piede!». Le notizie trasmesse in tv non aiutavano affatto: la città veniva rappresentata come un campo minato, pieno di pericoli e minacce. All’improvviso un’azione che mi era sempre sembrata semplice e quotidiana si era trasformata in una specie di sfida. A San Salvador non potevo camminare quasi mai. E chiaramente iniziai a sentirne una mancanza terribile.


Prima di andarci a vivere, la mia idea di San Salvador era...
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Afobakadam: storia innaturale di una diga

di Francesco Cositore

«La diga non è stata pianificata con sufficiente attenzione agli impatti sociali e ambientali […]. Per garantire l’illuminazione nella capitale e nel ricco nord, il governo non ha tenuto completamente conto dell’impatto sulle popolazioni tribali che vivono da millenni lungo l’Omo»1: sono queste le parole con cui nel 2018 Rudo Sanyanga, direttore per l’Africa di International Rivers, presentava Gibe III, mastodontica diga sull’Omo. Musica e parole che però resterebbero praticamente identiche se dall’Etiopia ci spostassimo in Suriname, lungo il corso del fiume che dà il nome al paese. Qui la capitale non si chiama Addis Abeba ma Paramaribo, il ricco nord si affaccia sull’Atlantico e la diga prende il nome di Afobaka. Per il resto, le differenze sono davvero minime. Ma andiamo con ordine.


Il Suriname è schiacciato tra l’Atlantico a nord e il Brasile a sud, e deve il suo nome all’omonimo fiume che nasce nelle foreste dello spopolato Distretto del Sipaliwini e che, dopo circa 480 km, sfocia con un estuario presso Paramaribo. Più o meno a metà del suo percorso, il Suriname si getta in un vasto lago artificiale, il quale, formatosi proprio grazie alla diga che ha sbarrato il corso del fiume, oggi occupa circa l’1% di tutto il territorio surinamese. Le motivazioni alla base di quest’opera vanno ricercate negli accordi firmati lunedì 27 gennaio 1958 tra il governo surinamese e la Suralco, una joint venture tra Alumina Ltd e (soprattutto) la statunitense Alcoa, potentissima multinazionale del settore dell’alluminio. Passati alla storia come Accordi di Brokopondo – dal toponimo della città che dà il nome anche al lago –, con essi la Suralco ottenne il permesso di costruire una diga in prossimità di siti di estrazione di...
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Impronte di gesso

di Sara Cappelletti


Édouard Dantan, Un moulage sur nature à l'atelier de sculpture de Saint-Cloud, 1886.



«In una sola volta, furono mescolati sette moggi di gesso e la miscela fu versata su di lui fino a che ne fu ricoperto fino al collo. Il gesso premeva così forte che le sue costole non avevano spazio per espandersi e lasciare che i polmoni continuassero a funzionare, così lui gemette in un sospiro: “Io… io… io… muoio”. Ero terrorizzato, poiché la sua testa era già ricaduta all’indietro: afferrai con i miei aiutanti la parte anteriore dello stampo e con uno sforzo soprannaturale lo spezzai in tre grandi pezzi, e tirai fuori l'uomo, che, quasi morto, giaceva a terra privo di sensi e madido di sudore. Un poco alla volta, lo aiutammo a tornare in sé. E poi, guardando la parte dello stampo che non era stata danneggiata, vidi la cosa più bella del mondo. Il gesso aveva catturato l’impronta della sua figura con tutta la purezza di un guscio, e quando lo unii ai tre pezzi anteriori, apparve il più bel calco mai preso dal vivo, che sfido chiunque nel mondo a eguagliare, senza rischiare – come ho fatto io incoscientemente – di uccidere l’uomo che vorrebbe ricreare nel gesso»1.


La storia dei calchi in gesso “a fior di pelle” è una storia complessa di appropriazione e trasformazione. Di memoria, materia e corpi fragili.


Nell’Ottocento, in Europa, esplode la moda dei calchi. Le dimore del Vecchio Continente si popolano di riproduzioni a grandezza naturale dei monumenti e delle sculture più famose, e di quelle che si vanno scoprendo nei territori coloniali, mentre accademie, studi e musei le collezionano a scopo didattico2. È anche...
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