Qual è il punto se non possiamo divertirci?

David Graeber

11 dicembre 2023


Crayfish © Brian Tomlinson, 2017.



Io e la mia amica June Thunderstorm una volta passammo mezzora seduti su di un prato in riva a un lago di montagna, osservando un bruco che si dondolava sulla punta di un filo d’erba, avvitandosi in ogni direzione possibile per poi saltare al filo d’erba successivo e rifare la stessa cosa. E così proseguiva, disegnando un ampio cerchio, con quella che doveva essere una profusione di energia pazzesca, per fare una cosa che non sembrava avere alcun senso.


«Tutti gli animali giocano», mi aveva detto un tempo June, «persino le formiche». Aveva lavorato per diversi anni come giardiniera professionista e in molte altre occasioni aveva potuto osservare scene simili e ragionarci sopra. «Guarda», disse con un’aria di modesta soddisfazione, «capisci cosa voglio dire?».


La maggior parte di noi, sentendo questa storia, insisterebbe per avere delle prove. Come facciamo a sapere che il bruco stava giocando? Magari le spirali invisibili che tracciava nell’aria erano solo un modo per cercare chissà quale sorta di preda. Oppure erano un rituale di accoppiamento. Possiamo dimostrare il contrario? Ammesso che il bruco stesse giocando, come facciamo a sapere che questa attività ludica, a ben vedere, non servisse a un qualche fine pratico – come un allenamento o un auto-addestramento per una possibile emergenza futura nel mondo dei bruchi?


Questa, d’altronde, sarebbe la reazione più diffusa tra coloro che si occupano di etologia. Parlando in termini generali, un’analisi del comportamento animale non è considerata scientifica se non quando l’animale è concepito, perlomeno tacitamente, come un soggetto che agisce secondo gli stessi mezzi-fini che verrebbero applicati alle transazioni economiche. Sulla base di questa premessa, un certo consumo di energia deve necessariamente essere indirizzato a un qualche obiettivo, che si tratti dell’ottenere cibo, difendere un territorio, raggiungere la dominanza o massimizzare l’efficacia riproduttiva – a meno che qualcuno non riesca a dimostrare il contrario in modo risolutivo, e in una tale questione, come si può ben immaginare, è difficile imbattersi nella prova definitiva.


Mi preme qui sottolineare una cosa: non ha alcuna importanza quale teoria della motivazione animale una scienziata adotti – che cosa crede che un animale stia pensando, sempre se ritiene ammissibile che un animale sia effettivamente in grado di “pensare” a qualcosa. Non sto dicendo che secondo la scienza etologica gli animali sono semplicemente delle macchine calcolatrici razionali. Sto semplicemente dicendo che chi fa ricerca in ambito etologico si è rinchiuso in un mondo in cui “essere scientifici”, qualunque sia la propria teoria della psicologia o della motivazione animale, significa offrire una spiegazione del comportamento in termini razionali – che a sua volta significa descrivere un animale “come se” fosse un attore economico calcolatore, che cerca di massimizzare una sorta di interesse personale.


È per tale ragione che l’esistenza del gioco tra gli animali viene considerata una sorta di scandalo intellettuale. È scarsamente indagata e le persone che effettivamente la studiano sono viste come gente un po’ eccentrica. Come accade con altre nozioni speculative vagamente minacciose, per dimostrare il gioco animale vengono introdotti criteri che non è facile soddisfare, e anche quando il fenomeno viene riconosciuto, l’attività di ricerca nella maggior parte dei casi finisce per cannibalizzare le sue stesse intuizioni, cercando di dimostrare le funzioni riproduttive o di sopravvivenza a lungo termine del gioco.


Ciononostante, coloro che approfondiscono concretamente l’argomento arrivano invariabilmente a concludere che nell’universo animale il gioco effettivamente esiste. Ed esiste non solo tra quelle creature notoriamente spassose come le scimmie, i delfini o i cuccioli, ma anche tra specie più improbabili come rane, pesciolini, salamandre, granchi violinisti e sì, anche tra le formiche – le quali non solo si dedicano ad attività frivole individualmente, ma sono anche state osservate, a partire dal xix secolo, nell’atto d’inscenare finte battaglie per il solo gusto di farlo.


Perché gli animali giocano? Be’, perché non dovrebbero? La vera domanda è: perché l’esistenza di un’azione praticata per il puro piacere di agire, ovvero l’esercizio di certe facoltà per il puro piacere di esercitarle, ci appare come una questione misteriosa? Il fatto che la riteniamo tale, che cosa ci dice su noi stessi come esseri umani?



La sopravvivenza dei disadatti


La tendenza comune a leggere il mondo biologico in termini economici risale agli albori della teoria darwiniana nel xix secolo. Charles Darwin, in fin dei conti, prese in prestito l’espressione “sopravvivenza del più adatto” dal sociologo Herbert Spencer, il beniamino degli imprenditori del tempo. Spencer, a sua volta, rimase colpito da quanto le forze che orientavano la selezione naturale ne L’origine delle specie coincidessero con le proprie teorizzazioni economiche del laissez-faire. La competizione per le risorse, il calcolo razionale dei vantaggi e la graduale estinzione dei deboli furono assunti come i principi fondamentali dell’universo.


La posta in gioco di questa nuova visione della natura come teatro di uno scontro brutale per l’esistenza era alta, e ben presto furono sollevate obiezioni. Dalla Russia emerse una scuola alternativa del darwinismo, la quale enfatizzava la cooperazione, e non la competizione, come motore dell’evoluzione. Nel 1902, questo approccio trovò voce in un testo divenuto popolare, Il mutuo appoggio, composto dal naturalista e autore anarchico-rivoluzionario Peter Kropotkin. In un’esplicita risposta ai darwinisti sociali, Kropotkin sostenne che l’intera base teorica del darwinismo sociale era sbagliata: le specie che cooperavano nel modo più efficace erano quelle che tendenzialmente risultavano le più competitive sul lungo periodo. Kropotkin, nato principe (rinunciò al suo titolo quand’era ancora un ragazzo), trascorse diversi anni in Siberia come naturalista ed esploratore; fu poi arrestato per agitazioni rivoluzionarie, ma si diede alla fuga e scappò a Londra. Il testo Il mutuo appoggio si formò a partire da una serie di saggi scritti in risposta a Thomas Henry Huxley, un celebre darwinista sociale, e sintetizzava la prospettiva russa dell’epoca: per quanto la competizione fosse indubbiamente un fattore determinante sia per l’evoluzione sociale che per quella naturale, il ruolo della cooperazione risultava in ultima analisi decisivo.


La posizione russa fu presa alquanto seriamente dalla biologia del xx secolo – in particolare nella sottodisciplina emergente della psicologia evoluzionista – benché raramente venisse menzionata per nome. Al contrario, finì per essere sussunta dal più ampio “problema dell’altruismo” – un’altra formula presa a prestito dagli economisti, che si è poi riversata nelle discussioni dei teorici della “scelta razionale” nell’ambito delle scienze sociali. La domanda che già aveva messo in difficoltà Darwin era questa: perché mai gli animali dovrebbero sacrificare il loro vantaggio individuale a favore di altri? Nessuno può negare che talvolta lo facciano. Perché un animale da branco, avvertendo i suoi simili dell’arrivo di un predatore, dovrebbe attirare su di sé un’attenzione potenzialmente letale? Per quale ragione un’ape operaia dovrebbe uccidersi per proteggere il suo alveare? Se avanzare una spiegazione scientifica di un qualsiasi comportamento significa attribuirgli motivazioni razionali e massimizzanti, allora, di preciso, che cosa avrebbe cercato di massimizzare un’ape kamikaze?


Conosciamo tutti la risposta finale, resa possibile dalla scoperta dei geni. Gli animali avrebbero semplicemente cercato di massimizzare la propagazione dei loro stessi codici genetici. Curiosamente, questo punto di vista – che fu successivamente definito neo-darwinismo – venne sviluppato in larga parte da figure che si consideravano, per un verso o per l’altro, radicali. Jack Haldane, un biologo marxista, già negli anni Trenta si dava da fare per stuzzicare i moralisti, ironizzando sul fatto che, come qualsiasi altra entità biologica, sarebbe stato felice di sacrificare la sua vita per «due fratelli o otto cugini». L’epitome di questa linea di pensiero si ebbe con l’opera dell’ateista militante Richard Dawkins, Il gene egoista – un lavoro secondo il quale tutte le entità biologiche erano meglio concepibili come “goffi automi”, programmati da codici genetici che, per qualche ragione che nessuno riusciva realmente a spiegare, si comportavano come “gangsters di Chicago inarrestabili”, impegnati a espandere il loro territorio in modo spietato, nell’inesauribile desiderio di propagarsi. Tali descrizioni erano tipicamente contraddistinte da osservazioni come: «Ovviamente è solo una metafora, i geni non fanno o vogliono niente per davvero». Ma nella realtà dei fatti, i neo-darwinisti furono concretamente spinti fino a certe conclusioni proprio a partire dalla loro ipotesi iniziale: cioè, che la scienza richiede una spiegazione razionale, che questo significa attribuire motivazioni razionali a ogni comportamento, e che una motivazione veramente razionale può essere soltanto una che, se osservata negli umani, verrebbe normalmente descritta come avidità o egoismo. Di conseguenza, i neo-darwinisti si spinsero persino più in là dell’alternativa vittoriana. Mentre i darwinisti sociali della vecchia scuola come Herbert Spencer consideravano la natura al pari di un mercato, per quanto insolitamente cruento, la nuova versione si presentava come apertamente capitalista. I neo-darwinisti non ipotizzavano solo una lotta per la sopravvivenza, ma un universo del calcolo razionale alimentato da un imperativo, apparentemente irrazionale, di crescita senza limiti.


Questo, in ogni caso, è il modo in cui la sfida russa fu intesa. Tuttavia, l’argomentazione effettiva di Kropotkin è ancora più interessante. Gran parte di essa, ad esempio, si sofferma sul fatto che la cooperazione animale spesso non ha nulla a che vedere con la sopravvivenza o la riproduzione, ma è una forma di appagamento in se stessa. «Volare in stormi per puro piacere è una cosa piuttosto comune tra tutti i tipi di uccelli», troviamo scritto ne Il mutuo appoggio. Kropotkin moltiplica poi gli esempi riferiti al gioco sociale: coppie di avvoltoi che volteggiano per il proprio divertimento, lepri così desiderose di fare boxing con altre specie che talvolta (e incautamente) arrivano a sfidare le volpi, stormi di uccelli che eseguono manovre militaresche, bande di scoiattoli che si radunano per incontri di wrestling e altri giochi simili:


Attualmente sappiamo che tutti gli animali, a partire dalle formiche, passando per gli uccelli, fino ai mammiferi più elevati, amano giocare, lottare, rincorrersi, cercare di catturarsi, stuzzicarsi e così via. E se molti giochi sono, per così dire, una scuola per il comportamento corretto dei giovani nella vita adulta, ce ne sono altri che, al di là dei loro scopi utilitaristici, sono, insieme alla danza e al canto, semplici manifestazioni di un eccesso di forze, “la gioia di vivere”, e il desiderio di comunicare in un modo o nell’altro con altri individui della stessa specie o di altre specie – in breve, una manifestazione della socievolezza vera e propria, che è una caratteristica distintiva di tutto il mondo animale.


Esercitare al massimo le proprie capacità significa trarre godimento dalla propria esistenza e, nel caso delle creature sociali, un tale piacere, quando espresso in compagnia, viene proporzionalmente amplificato. Dal punto di vista russo, questo fatto non ha bisogno di essere spiegato. È semplicemente la vita. Non siamo tenuti a spiegare perché le creature desiderino essere vive. La vita è fine a se stessa. E se essere vivi, di fatto, significa possedere delle facoltà – di correre, saltare, lottare, volare nel cielo – allora, senza ombra di dubbio, neanche l’esercizio fine a se stesso di tali facoltà necessita di una spiegazione. È una semplice estensione dello stesso principio.


Già nel 1975, Friedrich Schiller aveva sostenuto che precisamente nel gioco era possibile rinvenire le origini della coscienza del sé, e dunque la libertà, e a sua volta la moralità. «L’uomo gioca solo quando è, nel pieno significato della parola, un uomo», scriveva Schiller nelle sue Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, «ed è unicamente e veramente un Uomo quando gioca». Se fosse così, e se Kropotkin aveva ragione, allora vediamo che ovunque intorno a noi cominciano ad apparire i bagliori della libertà, o persino della vita morale.


Non sorprende affatto, dunque, che questo aspetto dell’argomentazione di Kropotkin sia stato ignorato dai neo-darwinisti. Al contrario del “problema dell’altruismo”, la cooperazione per il solo piacere, come fine in sé, semplicemente non poteva essere ammessa per ragioni ideologiche. Infatti, la versione della lotta per la sopravvivenza emersa nel corso del xx secolo concedeva al gioco ancora meno spazio rispetto all’antecedente vittoriano. Herbert Spencer stesso non aveva alcun problema con l’idea del gioco animale come attività priva di scopo, un puro godimento di energie in eccesso. Così come un industriale di successo o un venditore poteva andare a casa e farsi una bella partita di cribbage o di polo, perché mai quegli animali che erano riusciti a sopravvivere alla lotta per l’esistenza non avrebbero potuto divertirsi un po’? Tuttavia, nella nuova versione dell’evoluzione, quella esplicitamente capitalista in cui la spinta all’accumulazione non aveva limiti, la vita non era più un fine in sé, ma un mero strumento per la propagazione di sequenze di DNA – e di conseguenza l’esistenza stessa del gioco venne considerata come qualcosa di scandaloso.



Perché io?


Il fatto è che la comunità scientifica non è semplicemente riluttante a intraprendere un percorso che possa portare la scienza a vedere il gioco – e dunque i semi della coscienza di sé, della libertà e della vita morale – tra gli animali. Nell’ambito della ricerca sembra diventare sempre più difficile trovare giustificazioni per attribuire uno qualsiasi di questi aspetti agli esseri umani. Una volta che tutte le creature viventi sono ridotte all’equivalente di attori di mercato, macchine di calcolo razionali che cercano di propagare il loro codice genetico, si ammette che non solo le cellule che formano il nostro corpo, ma che qualsiasi entità sia il nostro progenitore più prossimo sia stata sprovvista di coscienza di sé, libertà e moralità – cosa che rende difficile comprendere come o perché la coscienza (la mente, l’anima) abbia mai potuto evolversi in primo luogo.


Il filosofo americano Daniel Dennett ha inquadrato il problema in modo davvero chiaro. Prendiamo le aragoste, dice lui: sono solo dei robot. Le aragoste tirano avanti senza che abbiano il benché minimo senso del sé. Non si può chiedere come ci si sente a essere un’aragosta. Non si sente niente. Non possiedono nulla che somigli nemmeno lontanamente alla coscienza. Sono macchine. Ma se è davvero così, prosegue Dennett, allora lo stesso deve valere a mano a mano che si risale la scala evolutiva della complessità, dalle cellule viventi che compongono i nostri corpi alle creature più elaborate come scimmie ed elefanti, di cui, a dispetto delle loro apparenti qualità pseudo-umane, non è possibile dimostrare il fatto che pensano a ciò che fanno. E così è, fino a quando, improvvisamente, Dennett non arriva agli umani, che – nonostante sia certo che per il 95% del tempo viaggino col pilota automatico – pare abbiano questo “io”, questo sé cosciente innestato su di essi, che occasionalmente si manifesta per supervisionare il tutto, intervenendo per dire al sistema di cercare un nuovo lavoro, smettere di fumare, o scrivere un saggio accademico sulle origini della coscienza. Come scrive Dennett:


Sì, abbiamo un’anima. Ma è fatta di tanti piccoli robot. In qualche modo, i trilioni di cellule robotiche (e inconsapevoli) che compongono il nostro corpo si organizzano in sistemi interagenti che sostengono le attività tradizionalmente assegnate all’anima, all’io o al sé. Ma poiché abbiamo già ammesso che i robot semplici sono inconsci (se i tostapane, i termostati e i telefoni sono inconsci), per quale ragione un insieme di questi robot non dovrebbe essere in grado di realizzare i suoi progetti più fantasiosi senza dovermi comporre? Se il sistema immunitario ha una mente propria e il circuito di coordinazione occhio-mano che raccoglie le bacche ha una mente propria, perché preoccuparsi di creare una super-mente per supervisionare tutto questo?


La risposta dello stesso Dennett non è particolarmente convincente: secondo la sua ipotesi, avremmo sviluppato la coscienza per poter mentire, cosa che ci avrebbe dato un vantaggio evolutivo. (Se fosse così, non sarebbero forse coscienti pure le volpi?). Tuttavia, la difficoltà di tale interrogativo cresce esponenzialmente quando ci si chiede come questo accada – “il problema duro della coscienza”, come lo chiama il filosofo David Chalmers. Come fanno cellule e sistemi apparentemente robotici a combinarsi in modo tale da generare esperienze qualitative – percepire l’umidità, assaporare il vino, adorare la cumbia ma essere indifferenti alla salsa? Ci sono persone, in ambito scientifico, abbastanza oneste da ammettere di non avere la minima idea su come spiegare esperienze come queste – e dubitano che mai l’avranno.



Gli elettroni danzano?


C’è una via d’uscita da questo dilemma e il primo passo è prendere in considerazione il fatto che il nostro punto di partenza potrebbe essere sbagliato. Ripensiamo all’aragosta. Le aragoste hanno davvero una pessima reputazione tra i filosofi, i quali le citano frequentemente come esempi di creature che non pensano o non provano assolutamente nulla. Presumibilmente, la ragione è che le aragoste sono i soli animali che la maggior parte di loro abbia mai ucciso con le proprie mani prima di mangiarle. Buttare una creatura sofferente in una pentola d’acqua bollente è una cosa ripugnante; bisogna proprio sapersi dire che l’aragosta, in realtà, non sta sentendo niente. (L’unica eccezione, per qualche ragione, sembrerebbe essere la Francia, dove Gérard de Nerval era solito portare a spasso col guinzaglio un’aragosta domestica, e dove Jean-Paul Sartre a un certo punto, dopo aver assunto un po’ troppa mescalina, divenne eroticamente ossessionato da questi animali). E infatti la ricerca scientifica ha rivelato che persino le aragoste si intrattengono in particolari forme di gioco – manipolando gli oggetti, ad esempio, probabilmente per il solo gusto di farlo. Se fosse così, chiamare creature simili “robot”, significherebbe privare tale parola del suo vero significato. Le macchine non perdono tempo svagandosi. Ma se in fin dei conti le creature viventi non sono dei robot, allora molti di questi spinosi interrogativi svaniscono all’istante.


Che cosa succederebbe se procedessimo al contrario, decidendo di trattare il gioco non come una curiosa anomalia, ma come il nostro punto di partenza, un principio già presente non solo nelle aragoste e in tutte le creature viventi, ma anche a ogni livello di quelli che la fisica, la chimica e la biologia chiamano “sistemi auto-organizzanti”? Quest’idea non è così folle come può sembrare.


La filosofia della scienza, di fronte all’enigma su come la vita possa emergere da materia inanimata o su come degli esseri coscienti possano essersi evoluti a partire dai microbi, ha sviluppato due diverse spiegazioni. La prima consiste in quello che è stato definito “emergentismo”. Qui la tesi è che una volta che un certo livello di complessità è stato raggiunto, c’è una sorta di salto qualitativo in cui possono “emergere” leggi fisiche del tutto inedite – leggi che si basano su quanto venuto prima, ma che non possono essere ridotte a ciò. In tal senso, le leggi della chimica possono essere definite come emergenti dalla fisica: la chimica presuppone la fisica, ma non può essere ridotta a essa. Allo stesso modo, le leggi della biologia emergono dalla chimica: bisogna ovviamente saper comprendere le componenti chimiche di un pesce per capire come fa a nuotare, ma tali componenti non ci daranno mai una spiegazione esaustiva. E similmente, la mente umana può esser definita come emergente dalle cellule che la compongono.


Coloro che si rifanno alla seconda spiegazione, generalmente chiamata “panpsichismo” o “panesperienzialismo”, sono concordi nel ritenere plausibile quanto detto fin qui, ma sostengono che la dinamica emergente non sia sufficiente. Per rifarci alle recenti considerazioni del filosofo inglese Galen Strawson, immaginare che, in soli due saltelli, si possa passare dallo stato di materia inerte a quello di un essere in grado di mettere in discussione l’esistenza di cose inanimate significa affidare alla dinamica emergente un compito esagerato. Qualcosa deve già essere lì, a ogni livello dell’esistenza materiale, persino a quello delle particelle subatomiche – qualcosa che, per quanto minimo o embrionale, mostri alcuni dei comportamenti che solitamente associamo all’essere vivi (o al pensiero) – affinché quel qualcosa possa organizzarsi in livelli sempre più complessi fino a generare esseri dotati di auto-coscienza.


Chiaramente potrebbe trattarsi di un aspetto davvero minimale: una sorta di rudimentale senso di reattività all’ambiente, una certa capacità di anticipazione, o qualcosa come la memoria. Per quanto elementare, in ogni caso, affinché i sistemi auto-organizzanti come quelli degli atomi o delle molecole possano effettivamente auto-organizzarsi, questo “qualcosa” dovrebbe necessariamente esistere.


In tale dibattito ci sono in gioco interrogativi di ogni genere, inclusa l’annosa questione del libero arbitrio. Per riprendere la domanda che è balenata a qualunque adolescente – perlopiù quando, dopo aver “fumato”, per la prima volta ci si trovava a contemplare i misteri dell’universo –, se i movimenti delle particelle che compongono i nostri cervelli sono già determinati dalle leggi naturali, allora come potremmo mai definirci dotati di libero arbitrio? La risposta standard è che dai tempi di Heisenberg sappiamo che i movimenti delle particelle atomiche non sono predeterminati; la fisica quantistica può prevedere, ad esempio, le posizioni verso cui gli elettroni, complessivamente e in una situazione concreta, tenderanno a saltare; tuttavia, è impossibile predire in quale direzione un singolo elettrone, in un dato caso, salterà. Problema risolto.


O forse no – manca ancora qualcosa. Se tutto ciò significa che le particelle che compongono i nostri cervelli saltellano in giro a caso, bisognerebbe comunque concepire una sorta di entità immateriale o metafisica (la “mente”) che interviene per guidare i neuroni in direzioni non casuali. Ma questa ipotesi è circolare: per far sì che il cervello si comporti come una mente, bisognerebbe già avere una mente.


Se tali dinamiche non sono casuali, invece, si può perlomeno cominciare a pensare a una spiegazione di tipo materiale. E la presenza di infinite forme di auto-organizzazione in natura – strutture che si mantengono in equilibrio con i loro ambienti, dai campi elettromagnetici ai processi di cristallizzazione – in effetti fornisce alla corrente del panpsichismo una gran quantità di casistiche su cui lavorare. È vero, sostengono costoro, puoi pure insistere sul fatto che tutte queste entità non stiano facendo altro che “obbedire” alle leggi naturali (leggi la cui esistenza stessa non ha bisogno di essere illustrata) o più semplicemente che si stiano muovendo del tutto a caso… Ma se la pensi così, è solo perché tu hai deciso che questa è l’unica prospettiva con cui intendi osservare la cosa. E il fatto che tu possieda una mente capace di prendere decisioni simili rimane un totale mistero.


Certo, questo approccio ha sempre costituito una posizione minoritaria. Per gran parte del xx secolo, fu completamente messo da parte. Basta poco d’altronde per scherzarci sopra. («Aspetta, non starai seriamente dicendo che i tavoli possono pensare?». No, per la verità nessuno lo sta dicendo; la tesi è che quegli elementi auto-organizzanti che compongono i tavoli, ad esempio gli atomi, manifestano forme estremamente basilari delle qualità che, su un piano esponenzialmente più complesso, associamo al pensiero). Tuttavia, in anni recenti, specialmente grazie alla rinnovata popolarità che hanno trovato, in certi circoli scientifici, le idee di filosofi come Charles Sanders Peirce (1839-1914) e Alfred North Whitehead (1861-1947), si è cominciato ad assistere a una sorta di revival.


Curiosamente, è stata soprattutto la fisica ad essersi mostrata ricettiva nei confronti di queste idee. (Anche la matematica – ma forse è meno sorprendente, dato che Peirce e Whitehead stessi iniziarono le loro carriere in questo campo di studi). Le persone che fanno ricerca nel campo della fisica sono creature più giocose e di vedute meno ristrette rispetto a quelle, per fare un esempio, impegnate nella biologia – anche perché, indubbiamente, le prime raramente si trovano a fronteggiare schiere di fondamentalisti religiosi che osteggiano le leggi della fisica. In questo campo troviamo l’animo poetico del mondo scientifico. D’altronde, se si è già inclini ad abbracciare l’idea di oggetti a tredici dimensioni o un numero infinito di universi alternativi, oppure a suggerire casualmente che il 95% dell’universo è composto di materia ed energia oscura, di cui ignoriamo le proprietà, forse non è un salto così grande contemplare la possibilità che le particelle subatomiche siano dotate di “libero arbitrio” o possano persino fare esperienze.


Ha senso dire che un elettrone “sceglie” di saltare in un certo modo? Ovviamente non c’è modo di dimostrarlo. L’unica evidenza che potremmo avere (parlo del fatto che non possiamo predire come si comporterà), ce l’abbiamo. Ma non è per nulla decisiva. Ciononostante, se si cerca una spiegazione prettamente materialista del mondo – vale a dire, se non intendiamo trattare la mente come una sorta di entità sovrannaturale innestata sul mondo della materia, ma più semplicemente come un’organizzazione più complessa di processi già in corso, a ogni livello della realtà materiale – allora ha senso ipotizzare che una cosa anche solo minimamente simile all’esperienza e all’intenzionalità debba esistere a ogni livello della realtà fisica.


Perché allora la maggior parte di noi sbigottisce di fronte a conclusioni simili? Per quale ragione ci sembrano folli o antiscientifiche? O per andar dritti al punto, come mai non abbiamo alcun problema nell’attribuire agentività a un filamento di DNA (per quanto in modo “metaforico”), ma troviamo assurdo fare lo stesso con un elettrone, un fiocco di neve, o un campo elettromagnetico in equilibrio? La risposta, a quanto pare, è che attribuire interessi personali a un fiocco di neve è praticamente impossibile. Se ci siamo convinti che una spiegazione razionale dell’agire può basarsi unicamente sull’idea che ci sia un qualche tipo di calcolo egoistico alle sue spalle, allora, stando a questa definizione, non è possibile trovare spiegazioni razionali per ciascuno di questi livelli. Al contrario di una molecola di DNA, di cui possiamo accettare almeno per finta gli spietati progetti di auto-accrescimento tipici di un gangster, un elettrone semplicemente non possiede un interesse materiale da perseguire, neppure la sopravvivenza. Quest’ultimo non è in alcun modo in competizione con altri elettroni. Se un elettrone agisce liberamente – se, come si suppone abbia affermato il fisico Richard Feynman, «fa quel che vuole» – non può che farlo come fine in sé. Questo significherebbe che alle fondamenta stesse della realtà fisica ci imbattiamo nella libertà per se stessa – che a sua volta significa imbattersi nella forma più elementare del gioco.



Nuotare coi pesci


Proviamo a immaginare un principio. Chiamiamolo il principio della libertà – oppure, dato che i costrutti latini tendono ad avere più peso in tali questioni, denominiamolo Principio della Libertà Ludica. Supponiamo che, in base a tale principio, il libero esercizio delle facoltà o abilità più complesse di un’entità tenda, per lo meno in certe circostanze, a diventare un fine a sé. Ovviamente non si tratterebbe dell’unico principio operativo in natura. Ce ne sarebbero altri che tirerebbero in altre direzioni. Ma se non altro, ci aiuterebbe a spiegare ciò che effettivamente osserviamo, come ad esempio il fatto che, nonostante quanto previsto dalla seconda legge della termodinamica, la complessità dell’universo sembra aumentare sempre di più anziché diminuire. La psicologia evoluzionista afferma di poter spiegare – come recita il titolo di una recente pubblicazione – «perché il sesso è divertente». Quello che non riesce a spiegare è il motivo per cui il divertimento stesso risulta divertente. Questo principio potrebbe farlo.


Non nego che quanto ho discusso fin qui non sia altro che una semplificazione brutale di problematiche molto complicate. Non sto neppure dicendo che la posizione esposta qui – cioè che c’è un principio ludico alla base di tutta la realtà fisica – sia necessariamente vera. Vorrei solo insistere sul fatto che una simile prospettiva è tanto plausibile quanto lo sono le assurde e incoerenti speculazioni che attualmente vengono trattate come un’ortodossia, secondo le quali, tutt’a un tratto, un universo robotico privo di mente riesce a generare poeti e filosofe dal nulla. E non credo nemmeno che vedere il gioco come un principio della natura significhi adottare una sorta di visione utopica e vaga. Tale principio può essere utile per spiegare perché il sesso è divertente, ma allo stesso modo può chiarire per quale ragione lo sia pure la crudeltà. (Come può confermare chiunque abbia guardato un gatto giocare con un topo, molte forme di gioco animale non sono particolarmente carine). Se non altro, quest’idea ci dà la possibilità di ripensare il mondo che ci circonda.


Anni fa, quanto insegnavo a Yale, mi capitava di assegnare la lettura di un famoso aneddoto taoista. Promettevo una “A” immediata a chiunque riuscisse a spiegarmi perché l’ultima frase aveva senso. (Neanche una persona ci è riuscita).


***


Zhuangzi e Huizi stavano passeggiando lungo un ponte sul fiume Hao, quando il primo osservò: «Guarda come sfrecciano i pesciolini tra le rocce! Questa è la felicità dei pesci».

«Tu che non sei un pesce», disse Huizi, «come puoi sapere cosa rende felici i pesci?».


«E tu che non sei me», disse Zhuangzi, «come puoi sapere che io non so cosa rende felici i pesci?».


«Se io, non essendo te, non posso sapere ciò che tu sai», rispose Huizi, «non ne consegue forse che tu, non essendo un pesce, non puoi sapere cosa rende felice il pesce?».


«Torniamo», disse Zhuangzi, «alla tua domanda iniziale. Mi hai chiesto come faccio a sapere cosa rende felice un pesce. Il fatto stesso che tu me l’abbia chiesto dimostra che tu sapevi che io sapevo – come di fatto sapevo, in base alle mie sensazioni su questo ponte».


***


L’aneddoto viene solitamente interpretato come un confronto tra due approcci inconciliabili al mondo: quello logico contro quello mistico. Ma se fosse così, allora per quale ragione Zhuangzi, che è l’autore del testo, si mostrerebbe sconfitto dalla logica del suo amico?


Dopo anni di riflessioni su questa storia, ho capito che il punto era proprio questo. A detta di tutti, Zhuangzi e Huizi erano legati da una grande amicizia. Amavano passare ore e ore in discussioni del genere. Di certo, è a questo che stava arrivando Zhuangzi: ognuno di noi può comprendere ciò che sta provando l’altro poiché, discutendo dei pesci, di fatto stiamo facendo esattamente ciò che fanno i pesci – ci stiamo divertendo, facendo qualcosa che ci riesce bene per il solo gusto di farlo. Ci intratteniamo in una forma di gioco. Il fatto stesso che tu ti sia sentito obbligato a battermi in una discussione, e che riuscirci ti abbia reso così felice, dimostra che la premessa che stavi sostenendo deve per forza essere falsa. Poiché se persino i filosofi, in fondo, sono motivati da piacere simili, dall’esercizio delle loro più alte facoltà solo per il gusto di farlo, allora sicuramente questo è un principio che deve valere ad ogni livello della natura – e questo è il motivo per cui io stesso sono riuscito a identificarlo spontaneamente nei pesci.


Zhuangzi aveva ragione. E anche June Thunderstorm aveva ragione. Le nostre menti sono solo una parte della natura. Siamo in grado di comprendere la felicità dei pesci – delle formiche o dei bruchi – poiché ciò che ci spinge a riflettere e discutere su tali questioni, in fin dei conti, è esattamente lo stesso identico principio.


Be’, non è stato divertente?



*Traduzione di Graeber D., 2014 What’s the Point If We Can’t Have Fun?, The Baffler, n. 24, a cura di Francesco Danesi della Sala. L'articolo appare su Alea B2: David Graeber, numero speciale della rivista pubblicato a luglio 2023. Questa versione dell'articolo è disponibile anche su The Anarchist Library.


Per sempre indipendenti

La linea editoriale di Alea è e sarà sempre indipendente, provocatoria e indisciplinata. Il nostro budget dipende esclusivamente dalla partecipazione dei lettori e delle lettrici al progetto. Ed è solo a loro che rispondiamo. Devi sapere che il 50% dei nostri costi è interamente dedicato alla retribuzione degli autori e dell’autrici della rivista. È una cifra importante, ma siamo convinti che nel nostro piccolo sia fondamentale valorizzare il lavoro culturale e di ricerca scientifica. Inoltre, è grazie a chi ci sostiene che possiamo mantenere aperto questo spazio, rendendo sempre più accessibile Alea con contenuti e approfondimenti di qualità. Se ti piace quello che stiamo facendo, abbonati alla rivista.

Abbonati ora