«Preferirei di no»

Giacomo Pozzi

06 aprile 2023


The lawyer abused, Jean Louis Forain, 1914.



Bartleby è «un immobile giovanotto», scialbo «nella sua dignità», pietoso «nella sua rispettabilità, incurabilmente» perduto. Con queste parole viene presentato da Herman Melville il protagonista di uno dei suoi racconti più apprezzati, Bartleby lo scrivano1. Il narratore, titolare di uno studio legale a New York, ha tre dipendenti: gli scrivani Turkey e Pince-Nez e il fattorino Ginger Nut. Un giorno, racconta, ritrovandosi sommerso dal lavoro, decide di assumere un altro scrivano, Bartleby. In un primo momento questi svolge diligentemente i compiti assegnati, fino a quando, improvvisamente, decide di smettere di lavorare. Ad ogni richiesta, risponde: «Preferirei di no». L’avvocato, stranito da quell’atteggiamento, in bilico tra pietà ed esasperazione, scopre che il giovane non ha casa né amici e che, da qualche tempo, abita clandestinamente nello studio. Ad ogni tentativo di persuasione, il copista risponde con lo stesso motto: «Preferirei di no». Estenuato, il principale lo licenzia: tuttavia, Bartleby continua ad aggirarsi per lo studio, finché l’avvocato non decide di trasferire la sua attività per sfuggirgli. I nuovi inquilini dello studio, però, protestano per l’imperturbabile presenza dello scrivano, che non abbandona l’edificio, fino al suo arresto. Nel cortile del carcere dove viene recluso, Bartleby si lascia morire.


Sin dalla sua prima pubblicazione, Bartleby – lo scrivano che ha smesso di scrivere – ha fatto vacillare i critici letterari più competenti e ha schivato ogni tentativo di comprensione, creando una sorta di cortocircuito interpretativo. Giorgio Agamben ha suggerito che il copista rappresenti un’esistenza in stato di potenza; Gilles Deleuze, da parte sua, ne ha intravisto un moderno – e folle – Ulisse2. Entrambe le interpretazioni rendono giustizia solo in parte al caleidoscopico, ambiguo e disperato personaggio. Quanta arroganza – e quanta bellezza – in un carattere che non vuole farsi comprendere...


E se al cuore della riflessione di Melville vi fosse la fatica? Ipotesi strampalata, forse, ma su cui vale la pena soffermarsi, perché fornisce spunti interessanti per una riflessione sull’azione intellettuale.

 

Il primo tipo di fatica di cui ci parla Bartleby è ambientale: si riferisce cioè all’affaticamento di un individuo qualunque in un mondo particolarmente ostile ai lavoratori. Melville denuncia la pervasività di uno sfruttamento cieco, la spersonalizzazione di una vita deteriorata dal lavoro, la ferocia del consumismo, la perdita della solidarietà, la retorica del successo, le meccaniche celesti della produttività ad ogni costo.


Il secondo tipo di fatica è invece sovversivo. A uno sguardo superficiale, Bartleby appare immobile nella scelta di spezzare i legami col mondo. Invece, proprio attraverso la continua e pedante ripetizione della nota frase “preferirei di no”, lo scrivano esprime appieno la fatica di un atteggiamento di sovversione. Bartleby fa di tutto per annullarsi, lucidissimo nelle scelte e nel modo di comportarsi, ferocemente apatico nel rifiutare il sistema, intraprendente nel suo comportamento apparentemente insensato (Deleuze sbaglia quando vede in Bartleby un folle), avido nel suo voler smettere di esistere, solerte nell’interrompere la catena del lavoro produttivo. Attraverso l’utopia di una fatica indolente, Bartleby si oppone a un’altra fatica, quella del capitalismo, dello sfruttamento, della burocrazia.


Il lavoro intellettuale sembra giocarsi proprio nella tensione dialettica tra queste due fatiche. Questo sembra particolarmente vero per l’antropologia. Da un lato, infatti, l’accademia neoliberale – quella del publish or perish, dei “prodotti” della ricerca, della precarietà strutturale – tollera a malapena la progettualità lenta, ponderata, fondata sulla relazione, innestata sull’esperienza e costruita attraverso la cura dei legami proposta dagli antropologi. Dall’altro, il lavoro di campo – cuore pulsante della disciplina – è spesso accompagnato da una vibrante fatica, che a più riprese è stata definita culture fatigue, management impression, participation fatigue3, determinata proprio dalle caratteristiche relazionali ed esperienziali della disciplina.


Sebbene quest’ultimo tipo di fatica sia stato spesso interpretato come un effetto “indesiderato” della pratica etnografica, seguendo Bartleby potremmo invece pensarlo come la chiave di volta di un posizionamento intellettuale sovversivo – capace cioè di proporre il ribaltamento di una situazione esistente. L’antropologo, infatti, come lo scrivano, fonda le basi epistemologiche del proprio sapere su diversi, pedanti e irrinunciabili “preferirei di no”, che garantiscono, con non poca fatica, l’adesione a un’etica della ricerca fondata sulla tutela degli interlocutori, la predilezione per una postura critica e riflessiva, il privilegio del dialogo, dell’ascolto e della relazione.


L’antropologo, muovendosi in direzione opposta rispetto a Bartleby, è tenace nello sforzo di non rinunciare ai legami. Tuttavia, la spinta che lo muove è della medesima intensità di quella dello scrivano, così come l’obiettivo finale che, in fin dei conti, può essere rintracciato, per entrambi, nella salvaguardia della nostra umanità. Rinunciare alla fatica significherebbe privarsi della propria umanità. Ma a questo ci hanno già pensato gli altri, di certo non Bartleby, e tanto meno l’antropologia.



Note:


1 H. Melville, Bartleby lo scrivano.

2 G. Deleuze, G. Agamben, Bartleby, la formula della creazione.

3 D.J. Jones, Culture Fatigue: The Results of Role-Playing in Anthropological Research; C. Carter, Compassion Fatigue and Applied Anthropology: Lessons from a Suicide Hotline; G.D. Berreman, Behind Many Masks: Ethnography and Impression Management in a Himalayan Village.



*Giacomo Pozzi, ricercatore in Antropologia Culturale presso l’Università IULM, conduce ricerche etnografiche nell’ambito dell’Antropologia Urbana, tra Portogallo, Italia e Capo Verde. Nel 2020 ha pubblicato per Ledizioni Fuori casa: Antropologia degli sfratti a Milano. Questo contributo originale è stato pubblicato nel secondo numero di Alea, "Fatica".


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