Ozono-cene, uv-cene et al.

Elena Bougleux

28 aprile 2022


Factory smoke © Vitaly Vlasov, 2018.




Per ricostruire la storia del concetto di Antropocene è necessario risalire al 1974, quando due ricercatori di chimica inorganica, Frank Rowland e Mario Molina, dell’Università di California a Irvine, studiano la relazione tra l’aumento di un dato gas e la diminuzione di un dato altro nel caso in cui questi vengano casualmente a contatto nell’atmosfera (Molina e Rowland su Nature nel 1974, un articolo diventato storico). La reazione chimica viene studiata in laboratorio, ma mira a riprodurre quello che accade realmente in natura, nella zona più alta dell’atmosfera. I due gas in questione sono i cloro-fluoro-carburi (CFC), che aumentano, e l’ozono (O3), che diminuisce. I CFC sono gas composti, formati dai tre elementi cloro, fluoro e carbonio. L’ozono invece è un gas semplice, primitivo e libero nell’atmosfera, che quando si combina con i CFC va incontro a un processo chiamato depletion, “impoverimento”: non viene propriamente distrutto, ma impoverito, cioè privato di un atomo di ossigeno, diventando O2. Potremmo chiederci attraverso quale metaforico spillover sia possibile che lo studio di due molecole invisibili e anonime, entrate in contatto nell’atmosfera, si meriti di ri-denominare l’attuale era geologica.


I cloro-fluoro-carburi non esistono in natura: sono i discendenti sintetici di una lunga storia di brevetti iniziata negli anni Trenta con Thomas Midgley, chimico che li inventa, e proseguita con la DuPont, colosso della chimica che li brevetta. A partire dalla sintesi in laboratorio i CFC si diffondono nelle attività umane, diventano il principale gas nei frigoriferi, nella composizione degli aerosol, negli spray e nei condizionatori d’aria. Sono sintetici e progettati bene: inerti, non si infiammano, non esplodono, non sono tossici, e costano poco. Il loro successo traina l’industria chimica, che si arricchisce; si tratta del prototipo di progresso, un’invenzione che migliora concretamente la vita, un bell’esempio di scienza che interviene positivamente sulla realtà. Eppure oggi persino la pagina di Wikipedia dedicata al loro inventore (lo stesso Midgley che nel 1921 inventa l’altrettanto dannosa benzina al piombo) attribuisce ai CFC l’oscuro primato di molecole artificiali più dannose ai fini dell’inquinamento atmosferico.


L’ozono viceversa è un gas naturale piuttosto raro, velenoso per gli esseri viventi e altamente tossico per gli umani, in sostanza inutile alla vita, senonché la sua presenza negli strati alti della troposfera, a circa 35 chilometri di altitudine, agisce come barriera per i raggi ultravioletti in arrivo dal Sole. Questi sì, sono nocivi, cancerogeni, e la loro nocività per tutte le forme di vita aumenta proporzionalmente all’esposizione, con poche differenze fra sfera vegetale e animale. Tuttavia, in assenza di ozono nell’atmosfera non ci sarebbe vita sulla Terra. L’assottigliamento dello strato e la formazione di veri e propri buchi nella sua distribuzione sono il risultato imprevisto della combinazione accidentale fra i CFC umani liberati negli ultimi ottant’anni e le molecole di O3 presenti nell’atmosfera da sempre: la molecola più artificiale e senza storia contaminata dalla più naturale e arcaica, e viceversa – in modo perfettamente simmetrico. L’arcaico O3, instabile e raro, si trova alla giusta distanza dalla Terra per permettere la vita, abbastanza lontano da non essere respirato e abbastanza vicino per schermare le radiazioni. La rottura della pellicola di O3 purtroppo non sembra essere un fatto reversibile, poiché l’ozono dovrebbe tornare nella troposfera senza transitare dalla biosfera, per la quale sarebbe tossico. Da dove altro potrebbe arrivare? Non ci sono alternative. Fine della simmetria.


Se ora pensiamo in senso polifonico e non solo chimico alle relazioni descritte sopra, quelle fra i due gas, quelle tra le zone alte e basse dell’atmosfera, tra i raggi ultravioletti e il vivente, la pelle e le foglie, possiamo individuare una dialettica estesa, quasi una compartecipazione delle entità verso uno scopo entropico comune, attraverso esplicitazioni di interdipendenza diffusa che decisamente ci sfuggono.


Naturalmente la rilevanza epocale delle modifiche impresse dagli umani all’ecosistema non si mitiga con l’adozione di un nuovo nome per una – forse – nuova era geologica. La costruzione del dissenso nei confronti della nuova nozione avviene con un travaso di tropi critici fra ambienti disciplinari e politici diversi, ambientalismi, femminismi, movimenti sociali, che a partire da posizionamenti anche lontani non accolgono, e anche duramente respingono, la riproposta centralità dell’anthropos in questa nuova era.



*Elena Bougleux è professoressa associata presso l’Università degli Studi di Bergamo, dove insegna Antropologia Culturale. L'articolo è apparso sul primo numero di Alea "Materia".


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