Non so dirti come e quando, ma un bel giorno cambierà

Pasquale Menditto

19 luglio 2023


David Graeber speaks at Magdenhuis Amsterdam – Guido Van Nispen, 2015.



Vedrai, vedrai

Vedrai che cambierà

Forse non sarà domani

Ma un bel giorno cambierà

—Luigi Tenco, Vedrai vedrai, 1965.



Sui debiti positivi


Mi considero in debito con David Graeber.


Le ragioni di questo indebitamento sono essenzialmente due, e prima della fine di questo testo intendo esporle in due appositi intermezzi. Adesso, però, mi sembra necessario chiarire che il mio indebitamento rientra nell’unica categoria amata da Graeber, quella in cui non si tratta tanto di restituire qualcosa, in genere un pegno “x” che quantifica l’entità del prestito (interessi compresi), quanto piuttosto di una condizione il cui fine è mantenere la relazione stessa. In pratica, i debiti alla Graeber sono quelli descritti da Marcel Mauss – e dalle schiere di antropologhe e antropologi che sono venuti dopo di lui – nel Saggio sul dono, ogni qual volta si sono trovati di fronte a relazioni di scambio in cui, però, lo scambio di qualcosa non era il vero obiettivo dell’operazione. In una società ossessionata dalla logica della merce, con la sua implicita teoria del valore, l’idea di uno scambio in cui l’oggetto scambiato non è il protagonista potrebbe apparire come un affare “esotico”, se non addirittura impossibile. In realtà, mi basta evocare un paio di esempi piuttosto elementari per dare l’idea che i debiti insolvibili non sono soltanto una roba da aguzzini mafiosi o banche, ma piuttosto una forma semplice e costruttiva di socializzazione.


Prendete il tempo che passate con un’amica. Diciamo che Silvia vi scriva perché ha appena rotto con la sua ragazza e avrebbe proprio bisogno di svagarsi un po’. Ventiquattro ore dopo, vi trovate in un locale a bere una birra con cui avete deciso di dissetarvi dopo una lunga passeggiata al parco, durante la quale Silvia ha parlato per circa un’ora della sua relazione, delle incomprensioni che si sono accumulate e che lei e la sua ex-compagna non sono riuscite a elaborare. Ebbene, tutto questo “scambio” di tempo viene solitamente descritto come “amicizia” e uno dei problemi teorici di questo concetto è che non è facile da descrivere in astratto. Relazioni di questo genere sono persino impossibili da comparare l’una con l’altra, al punto che anche quando si elegge una persona a migliore amico o amica, spesso ci si ritrova ad adoperare criteri di giudizio che raramente restano invariati nel tempo. Aristotele, che nell’Etica Nicomachea prende in esame questo genere di rapporto, si risolve ad usare dei meta-valori per categorizzare l’amicizia, in modo da poterle dare una definizione. Secondo il suo schema l’amicizia può essere motivata dalla ricerca dell’utile, del bene e del piacere: curiosamente per noi, Aristotele considera l’amicizia per l’utile di grado inferiore rispetto alle altre due, perché quando le cose vanno male quel genere di amici scoprono di essere legati più al profitto individuale che non alla relazione in sé. La “morale” dell’esempio sull’amicizia come debito insolvibile è che è impossibile quantificare veramente quello che si sta scambiando tra amici, perché infatti non si tratta neppure di uno scambio in primo luogo, ma bensì di un dono.


È vero che nel saggio Mauss asserisce che l’azione del donare implica il controdono da parte del ricevente. Allo stesso tempo, però, tanto Mauss quanto autori e autrici successive hanno riscontrato che l’oggetto dell’operazione è il compimento del suo valore simbolico piuttosto che segnico. Detto altrimenti: donare – ancora una volta – non ha a che fare con la cruda operazione di far passare qualcosa di mano in mano, ma piuttosto rimanda a una dimensione che sta al di là della semplice operazione e che tuttavia ha bisogno di quest’ultima per essere evocata: sto parlando della dimensione sociale. Il dono è a tutti gli effetti una forma di contratto, un termine che richiama immediatamente la sfera del lavoro e della burocrazia; tuttavia, mi ripeterò ancora una volta affermando che il contratto “moderno” è strutturato per dare l’impressione che i contraenti si scambino cose di egual valore per un tempo limitato, e prevede tutta una serie di dispositivi (polizia, tribunali, prigioni, opinionisti TV, etc.) per assicurare che le parti lo rispettino. Nel dono anti-moderno1, invece, lo scambio di una stoffa, di un oggetto o del cibo sta a simboleggiare la forgiatura di un legame che si può esprimere attraverso alleanze, futura ospitalità o mutualismo. Ma soprattutto, nel dono c’è sempre una dimensione imprevedibile. Proprio perché non ci si scambia equivalenti, il contro-dono, per quanto codificato, può riservare delle sorprese, non ultima il fatto che non si concretizzi mai. Tanto per giocare con i parallelismi, il giorno del proprio compleanno ci si aspetta di ricevere un regalo per varie ragioni, la più banale delle quali potrebbe essere di aver sempre fatto regali ad altri nella stessa posizione; tuttavia, non si sa mai con certezza che forma potrebbero assumere i regali, da qui la possibilità di restare delusi, emozionati o infuriati. In generale, quando si ha sempre la possibilità di rivendicare un contro-dono, in realtà si sta riscuotendo un debito, che molto probabilmente assumerà la forma della propria valuta di riferimento.



Intermezzo I


C’è un passaggio di Toward an anthropological theory of value (2002) in cui Graeber sostiene che l’antropologia è nata in un contesto intellettuale marchiato da una contraddizione insanabile: da un lato l’imperialismo colonialista, dall’altro l’ossessione per la possibilità di una rivoluzione repentina, di un cambiamento dello stesso ordine imperialista con qualcosa di radicalmente differente. Da studente avevo appreso solo la prima metà di questa storia. Le complicità tra antropologia e colonialismo sono del resto risapute e, anzi, spesso si sottovaluta quanto forte sia ancora l’influenza esercitata da parte delle istituzioni politiche e degli attori economici privati, soprattutto in epoca neoliberale, sui dipartimenti delle scienze sociali.


A partire dagli anni Settanta è incominciata la (necessaria) decostruzione della disciplina, che ha “smascherato” la vergognosa vicinanza tra il sapere antropologico e le relazioni di dominio che affliggono il nostro mondo. Eppure, quell’ondata ha finito per impantanarsi in una sterile critica epistemologica, che in fondo non interessa a nessuno e che ha finito per trasformarsi in una sorta di rifugio per una scienza sociale che sembra divenuta incapace di intervenire sul presente. Chiaramente il mondo non si è fermato in attesa che l’antropologia si ridestasse dal suo sonno metafisico e le cose, per chi non se ne fosse accorto, sono andate piuttosto male, soprattutto per quel 99% a cui Graeber teneva tanto e nelle cui capacità immaginative non ha mai smesso di credere.


Tutto questo per dire che leggendo i testi di Graeber ho scoperto la seconda metà della storia o, meglio, che non ha senso fare antropologia se non ci si sente almeno un po’ ossessionati da un senso di possibilità sociale, dalla «sensazione che le persone dovrebbero essere capaci di tradurre schemi immaginari in una qualche sorta di realtà»2 da opporre a quella logora e avvilente che li opprime.



Perché i valori sono importanti


Ma che c’entra tutto questo con Graeber? La risposta più ovvia è che una delle sue opere più famose e popolari, dentro e fuori il circolo dell’antropologia, riguarda proprio il debito come istituzione storico-sociale. Debito. I primi 5000 anni è un libro brillante e sorprendente, soprattutto per l’approccio di lunga durata sul fenomeno dell’indebitamento, che viene inquadrato come un meccanismo politico e sociale che in determinate condizioni diventa un dispositivo finalizzato all’asservimento e alla conservazione di rapporti di potere.


Per dare un’idea del ragionamento alla base del libro, riassumerò brevemente un esempio che appartiene, però, a un testo di Graeber dedicato al movimento Occupy Wall Street, di cui per altro l’antropologo fu uno dei promotori e “pubblicitari”, visto che lo slogan “We are the 99%” è stato una sua trovata3. L’aneddoto riguarda il tour statunitense che Graeber stava facendo per l’uscita di Debito. Alla fine di una presentazione, venne approcciato da una giovane donna che gli raccontò la sua personale storia di indebitamento. Proveniva da una famiglia di umili origini, tuttavia era riuscita tramite borse di studio e duro lavoro a entrare in uno dei più prestigiosi college americani per svolgere un dottorato in letteratura rinascimentale, alla fine del quale si era ritrovata disoccupata e con un debito di 80.000 dollari. Pressata dalle banali spese quotidiane e dalla rate per la restituzione del prestito universitario, alla fine si era messa a fare l’escort – l’unico lavoro che le permetteva di sopravvivere al costo della sua esistenza. Nel libro, Graeber ammette di aver rimuginato su quella storia per giorni, sia per il parallelismo tra la sua biografia e quella della donna, sia per l’amara ironia di quella situazione. Per quella ragazza, infatti, il debito non era soltanto una somma di denaro ma una situazione di degradamento fisico e morale. In fondo, lavorando come escort si trovava spesso a soddisfare le richieste sessuali degli uomini di Wall Street, ovvero quel manipolo di operatori della finanzia globale che si arricchivano proprio tramite la riscossione del suo debito.


Negli Stati Uniti, Occupy era nato proprio in seguito al proliferare di questo genere di storie, ma soprattutto in risposta alle continue espropriazioni con cui l’alleanza Stato-finanza vessava le comunità, soprattutto quelle storicamente marginalizzate per motivi razziali e sociali. L’ispirazione però proveniva direttamente da piazza Tahrir, in Egitto, dove nel gennaio del 2011 migliaia di persone si erano radunate per destituire il regime di Hosni Mubarak, la cui repressi