Melachioda

Altea Villa / Variazioni

13 ottobre 2021

Le labbra pallide indicano carenza di ferro, mi dicono. La debolezza – astenia –, i giramenti di capo – vertigini –, tutti segni che qualcosa manca, nell’organismo. Un minerale – ferro – mi viene in mente. Sapore sanguigno. Gli integratori sullo scaffale della farmacia sono esibiti in brune boccette di vetro o in candide di plastica. Mia nonna mangiava la melachioda. Per due giorni cerco senza sosta in tutta la casa: finalmente li trovo, in una scatolina delle caramelle balsamiche. Sette chiodi di ferro – puro, nessuna lega – che metto a bollire nell’acqua. Poi prendo una mela grinzosa e li pianto uno a uno. La sera dopo, li tolgo. Appoggio la narice su ogni foro annerito, cerco come un cane di trovare la scia olfattiva. Mangio la mela, bevo il succo di ferro.

 

Non mi piacciono gli integratori perché sono bianchi, perfetti, lisci e minuscoli: non hanno sapore, vengono giù con un po’ d’acqua ed è come se nulla fosse passato dentro di te. Non lo senti scorrere, il minerale. Non puoi nemmeno immaginarlo farsi strada al tuo interno, rimpolpare le vene quasi asciutte. Vene di carne, vene di terra: son tutte vene quelle che ci percorrono. Comincio a cercare, a leggere. Non riesco a toccare la tastiera, le dita mi scivolano sulla plastica lucida. Sulle pagine di vecchi libri la cellulosa mi aiuta a non perdere il filo. Cerco segni di geofagia. Cerco la giustificazione al bisogno, che sento, di mettermi la terra in bocca, di riempirla di saliva e mandarla giù, in fondo allo stomaco, nella mia miniera, nelle mie vene. Lo facevo nell’infanzia, ma gli adulti intorno a me non volevano, mi strappavano le zolle dalle mani. Perché è sporca, perché ti vengono i vermi. Mia nonna capiva, mia nonna mi lasciava fare. Mia nonna della melachioda.

 

Se le ossa sono deboli, cerchi la terra ricca di calcio, affinché si solidifichino e si trasformino in cellule ossee sempre più dure. Le argille sono le più indicate al comportamento litofagico: nella storia, nell’antropologia, in condizione di malnutrizione. Poi trovo la linea di confine tra il bisogno fisico e la patologia. E la definiscono Pica, questa voglia irrefrenabile di ingoiare ciò-che-non-va-ingoiato. Eppure non voglio masticare fiammiferipuntineelasticibottoni ma soltanto terra, la semplice terra dell’argine del ruscello che scorre dietro casa. Quella più umida, vicino all’acqua, che se la guardi illuminata dal sole sembra contenga oro e argento, brilla, è piena di luce. Mangiandola, anche io mi riempirò d’oro e d’argento, brillantezza e luce.


Nella valigia allineo i vasetti di marmellata puliti e me ne vado a zonzo, scelgo le zolle con cura, riempio e chiudo. La mia valigetta delle zolle, il mio campionario. Sull’etichetta scrivo dove l’ho raccolta – ansa del ruscello, ore 9.18, 12 ottobre – e poi la descrivo per come si rivela alla vista, al tatto, all’olfatto.

 

Quando ero alle medie e si ritornava in classe dopo le vacanze, chi era andato al mare portava un po’ di sabbia della spiaggia custodita nelle bottigliette del succo di frutta. Le mettevano in fila sui banchi e osservavamo le differenze. La più chiara era la più rinomata: perché chiaro vuol dire puro, chiaro vuol dire pulito. Invece a me piaceva quella nera, quella dei vulcani. Perché scuro vuol dire ricco: di minerali, di sostanze che nel corpo si fanno sangue e carne.

 

Mi aggiro per la campagna con la mia valigetta, dopo un mese tutti i barattoli sono pieni. La dispensa sembra il laboratorio di un alchimista: tra le conserve e le latte di perini impolverate, dispongo le mie zolle sottovetro, marchiate ed etichettate con grande cura. In base a colore, consistenza e odore, intuisco subito per cosa potrebbero servirmi: se le labbra diventano pallide, se i capelli cadono, se le ossa si fanno fragili, se al mattino, lasciato il letto, ti viene da svenire. Accanto a loro, la mia melachioda.



*Altea Villa (1983) è una storica ottocentista passata al content writing per necessità di sussitenza. Scrive per periodici e collezionabili come ghost writer.


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