La via del latte: mungitori punjabi e vacche nostrane

Satya Tanghetti / Variazioni

30 marzo 2022

Il 60% dei lavoratori negli allevamenti e nei caseifici che compongono la filiera del latte in Nord Italia proviene dallo Stato indiano del Punjab. Questo dato, fornito dal BBC Magazine e supportato da altre testate giornalistiche ed enti di ricerca, spicca per la sua singolarità e non può non suscitare l’interesse di chi, abituato alla ricerca qualitativa, si trova di fronte a una percentuale così squilibrata. Un primo approfondimento di tipo storico e sociologico è utile per mettere in luce il motivo di questa preponderanza: a partire dagli anni Ottanta nell’ambiente degli allevamenti si è diffusa una credenza per cui i lavoratori indiani, in quanto hindu, siano particolarmente inclini a essere impiegati come mungitori, perché legati alle vacche da una relazione devozionale1.



Vacche a riposo all'interno di una stalla © Alea, 2022.



Il dato reale che giustifica lo stereotipo è che in media i lavoratori punjabi ottengono più latte dalle mucche che mungono. Perché le vacche producano alti quantitativi di latte i loro livelli di ossitocina devono essere elevati; questa condizione impone di instaurare all’interno delle stalle una routine abbastanza rigida dove le parole d’ordine sono calma e gentilezza. A Novellara, un comune del reggiano che raccoglie una delle più nutrite comunità di punjabi presenti in Italia, incontrai Sukhvir, mungitore con più di quindici anni di esperienza. Mi accolse nella cucina di casa sua e insieme parlammo del suo lavoro. In qualità di interprete, per espressa volontà di Sukhvir, partecipava anche la figlia adolescente Amaneep: «[Mio padre] dice che praticamente bisogna essere calmi e tranquilli. Perché alcune persone sono anche molto aggressive quando lavorano in una stalla e [quando] devono raccogliere [condurre] alcune mucche per mungerle sono molto aggressivi nei loro confronti. Dice che bisogna essere tranquilli, calmi perché loro capiscono […]». Nel corso della nostra conversazione il tema delle skills dei mungitori era centrale: insieme a Sukhvir e Amaneep, cercavo di mettere in discussione lo stereotipo che individua i lavoratori indiani come eccellenti mungitori. Per avere un’idea più completa della sua prospettiva rispetto allo stereotipo chiesi se un loro connazionale fosse mai stato allontanato perché considerato inadatto a svolgere quel lavoro. Sukhvir mi spiegò che effettivamente era capitato, «però magari sono persone che non hanno esperienza in una stalla, che non hanno mai lavorato in una stalla». Era questione di esperienza, non di provenienza geografica.


Esperienza e dimestichezza all’interno della stalla costituiscono, a detta dei miei interlocutori, il fulcro della questione. Le condizioni ideali per la mungitura sono facilmente raggiunte dai mungitori punjabi non per una loro presunta reverenza nei confronti dei bovini, bensì grazie al loro specifico background culturale. Questo pensiero è stato bene espresso da Journel, un mungitore residente in provincia di Bologna con il quale mi sono confrontata all’interno del parcheggio del Gurdwara, il tempio sikh, di Castel Franco Emilia: «Perché mucche da noi... Noi abbiamo dentro nostra culture con mucche. Anche [tra gli] hindu lavora tanta gente... però noi con mucca sappiamo parlare, non so come spiegare capito?» Un atteggiamento che Journel attribuì a una solida etica lavorativa, distintiva dei lavoratori punjabi2: «Non pensiamo: “Non è mia quella stalla lì”. Sempre abbiamo lavorato come [fosse] nostra [l']azienda. Vogliamo bene più di padrone alla mucca, più di proprietario. Vogliamo bene [più] noi che loro. Loro picchiano anche, noi no! [Fanno] più latte con noi che [con] uno italiano che va a lavorare. Uno italiano che va in azienda non riesce a fare quello che facciamo noi». Le parole di Journel riflettevano bene l’immaginario attorno al Punjab: una regione rurale tradizionalmente legata all’agricoltura. Per i punjabi impiegati nelle stalle italiane questo genere di lavori agricoli costituisce non solo un’attività a cui sono abituati ma anche un aspetto identitario centrale nella loro autorappresentazione. La “punjabità” o panjabiat, come nota la studiosa Eleanor Nesbitt, ruota attorno agli aspetti rurali dello stile di vita punjabi: «I sikh in India spesso ribadiscono di non avere alcun tipo di cultura all’infuori dell’agricoltura»3. Su queste basi è possibile considerare l’esperienza acquisita in patria come un sapere incorporato, un’abilità raggiunta grazie all’immersione costante entro la ruralità caratteristica di molte zone del Punjab. Proprio perché interiorizzata essa si rivela efficace nelle stalle del Punjab così come in quelle italiane, nonostante le differenze di tecnologia e metodo. 



Nel parcheggio del tempio sikh di Gurdwara a Novellara © Giovanni Mereghetti, Universal Images Group, 2010.



Un’analisi di questo genere ha richiesto uno sguardo ravvicinato al lavoro nelle stalle. La giornata di un mungitore inizia alle prime luci dell’alba; le vacche devono essere munte tutti i giorni, altrimenti la montata lattea provoca loro dolore. Si tratta di un lavoro dai ritmi invariabili, che non conosce pause, tutti elementi che lo rendono poco desiderabile a molti lavoratori italiani – un fatto di cui sia i dipendenti che i proprietari delle aziende hanno dimostrato di essere consapevoli. Ne parlai con Khulvir, un lavoratore agricolo di un’azienda del reggiano che ho incontrato nella casa dei suoi datori di lavoro, Anna e Carlo, con i quali lavora da più di vent’anni. Durante la nostra conversazione, Anna – la proprietaria – intervenne più volte in modo imprevisto, commentando e “completando” le risposte del suo impiegato. Se da un lato Khulvir sottolineava la predilezione dei punjabi nei confronti dei lavori agricoli – «Non [lo] so, [il] nostro lavoro è come qua, si lavora tanto la terra, noi capaci e anche piace» –, Anna rincarava la dose, insistendo sulla scarsa predisposizione al sacrificio dei lavoratori italiani: «perché gli italiani non vogliono lavorare il sabato e la domenica, invece loro sì». Lo scarso interesse degli italiani, secondo la maggior parte dei mungitori che ho incontrato, sarebbe legato alla rigidità degli orari lavorativi, in particolare quelli del turno mattutino, considerato molto faticoso. Nel parcheggio di Gurdwara, la conversazione con Journel finì per attirare diversi amici e passanti che quel giorno si erano recati al tempio. Lo scambio di domande e risposte si trasformò in un dibattito corale del tutto inaspettato: «Sai perché [agli] italiani non piace lavoro di stalla? Perché loro non riescono a alzare la mattina alle tre. Dove c’era lui [indica un membro del gruppo] prima [il] suo padrone arrivava che metà mucche erano già munte, e diceva: “Scusa! Scusa!” [risate generali]». Uno di loro suggerì inoltre che il rispetto di orari così rigidi potesse essere congeniale ai sikh praticanti, dal momento che erano già abituati a svegliarsi presto la mattina per pregare.


Quello che emerge dal contesto degli allevamenti è che quello del mungitore è un lavoro faticoso. Una conclusione niente affatto banale se si considerano le sfumature che caratterizzano il concetto di fatica in senso più ampio. Il fatto che si abbia a che fare con un sapere incorporato presuppone un’immersione totale e ripetuta nel contesto agricolo: solo in questo modo si può maturare una conoscenza profondamente radicata nei gesti e nelle abitudini del mungitore. La fatica fisica che si accompagna alla maturazione di questo tipo di esperienza, se contemplata nella sua dimensione sociale, dà vita a una serie di ricadute degne di nota. Le prestazioni lavorative offerte dai mungitori punjabi, che si concretizzano in un’esperienza “faticosa” assumono infatti una valenza differente a seconda dei punti di vista che le considerano. 


Per i proprietari delle aziende, la confluenza di lavoratori punjabi verso questo specifico impiego è convenientemente collegata a una loro predisposizione “etnica”, motivata dalle loro presunte credenze religiose. Questa prospettiva contribuisce implicitamente a giustificare gli obblighi e gli imperativi di questa professione come effetti collaterali trascurabili per chi svolge il lavoro per “vocazione”. Una lettura che nasconde numerose insidie nel momento in cui si tocca il tema del lavoro nero e del caporalato, come dimostrano numerose ricerche che denunciano casi di discriminazione ed esclusione, specialmente dei membri più giovani4.


I punjabi, dal canto loro, non sono particolarmente interessati a smantellare lo stereotipo, che gli permette di accedere a un canale di lavoro abbastanza stabile. Sono chiaramente consapevoli di tali problematiche ma continuano a considerare l’impiego appetibile. Il concetto è espresso in maniera chiara e diretta da Dinesh, un lavoratore di un’azienda in provincia di Modena. Dopo un’esperienza stagionale in Grecia, nel 2012 Dinesh riuscì a inserirsi nel circuito del latte emiliano. Quando lo incontrai non era più impiegato come mungitore, ma lavorava in un caseificio alla trasformazione dei prodotti: «[Ho] lavorato in agricoltura tre anni, quello è [un lavoro] difficile, fa male la schiena, [si fa] fatica. Quando ho cominciato [a lavorare] qua ho visto che questo lavoro mi piace, perché [sono stato] capace subito». I vantaggi sono molteplici: si tratta di un lavoro facilmente reperibile che non presenta ostacoli linguistici per i nuovi arrivati, inoltre, rispetto ad altri contesti agricoli, permette di regolarizzarsi abbastanza rapidamente, fattore che a sua volta permette il ricongiungimento familiare. Infine, è un lavoro che conoscono, che permette loro di portare avanti l’auto-rappresentazione della panjabiat in maniera costruttiva.



Vacca con targa di identificazione numerata © Alea, 2022.



C’è, infine, una terza prospettiva in riferimento alla fatica che tende inevitabilmente a passare in secondo piano. Si tratta della prospettiva non-umana, delle vacche impiegate negli allevamenti. Al centro della pratica della mungitura, infatti, si trova un altro essere vivente, la vacca, e tutto dipende dalla capacità di stabilire un certo tipo di relazione con essa. Il tema è quello dello sfruttamento animale. Il ruolo giocato dalla zootecnia negli allevamenti moderni permette un controllo totale del ciclo di vita degli animali che vengono gestiti e curati sotto ogni aspetto. Il sistema offre evidenti benefici, riducendo lo sforzo da parte dei lavoratori. Esistono tuttavia anche numerosi costi che derivano da questo genere di sistema, primo tra tutti quello legato alla necessità di sacrificare l'animale all'imperativo della produttività. Le vacche negli allevamenti convenzionali vivono in media cinque anni (mentre il ciclo di vita della vacca è di circa vent'anni), al termine dei quali entrano a far parte del circuito della carne. In questo quadro, la questione del benessere animale deve essere tenuta in considerazione per legge ma – questa è la principale accusa rivolta dai critici di tale sistema normativo – le logiche del rispetto degli animali continuano ad essere piegate a quelle economiche. I detrattori di questo genere di approccio hanno sottolineato l’importanza di considerare l'agentività delle vacche negli allevamenti e, quindi, in ultima analisi, la loro fatica5.


Si può dire che i mungitori punjabi e le vacche si trovino stretti in un legame relazionale dove la fatica costituisce il fulcro. Tuttavia, se da una parte questa relazione sembra essere alimentata da uno stereotipo culturale che minimizza la componente esperienziale effettiva, dall’altra non bisogna tralasciare il più ampio contesto capitalistico e produttivo entro cui questa trova il suo senso odierno. Un contesto che tende a neutralizzare, attraverso la retorica del benessere animale, un’altra fatica: quella degli animali, che con “calma” e “tranquillità”, vengono ridotti a semplici indici di produttività.



Note:


1 In Punjab il 75% della popolazione è di religione sikh. Si tratta di una fede monoteista nata in seno all’induismo nel XV secolo e successivamente distaccatasi, pur mantenendo numerosi punti di contatto con esso. Il culto di Krsna, al quale generalmente è associato il rispetto per la vacca nel contesto sikh non trova alcuno spazio. Ciò che è emerso nel corso della mia ricerca è che esiste un’accezione più ampia legata a questo animale, alla quale i miei interlocutori hanno dimostrato di non essere immuni, non tanto per questioni fideistiche quanto per ragioni di immaginario culturale e di convenienza. La sacralità della vacca in India, del resto, è in buona parte frutto di una campagna di “invenzione della tradizione” messa in atto dalle frange più ortodosse della nazione. Nella tradizione indiana, tuttavia, la vacca è sempre stata presente, riconosciuta come madre, placida e generosa. Questa prospettiva non può essere attribuita all’induismo, inteso in senso stretto come religione, poiché fa anche parte dell’immaginario delle altre confessioni religiose che abitano il subcontinente. L’induismo, come ricorda Giorgio Renato Franci «più che una religione, è una cultura in senso antropologico, cioè un insieme di tradizioni, usi valori, credenze, trasmesso, trasformato e accresciuto, attraverso le generazioni, tra quelle genti dell'India che, per scelta personale o per educazione familiare, non hanno aderito ad altre tradizioni spirituali» Franci G. R, Induismo.


2 Un aspetto che costituisce un tema centrale nella auto-rappresentazione che la comunità punjabi sta portando avanti con successo sul territorio. Il canale migratorio in Nord Italia ha permesso alla comunità di portare avanti un’opera di integrazione sociale efficace. Al contrario di come spesso e tristemente accade nelle pagine di cronaca del nostro Paese, nel contesto dei processi migratori “l’invasione” può tingersi di toni positivi, come riportato da un articolo de La Gazzetta di Reggio (In Emilia Romagna, Reggio Emilia è uno dei centri maggiormente interessato dalla migrazione punjabi: il Gurdwara di Rio Saliceto, distrutto in seguito al terremoto del 1996, è stato ricostruito nel 2000 a Novellara, in provincia di Reggio Emilia diventando un punto di riferimento significativo per i sikh stanziati in tutto il Sud Europa). La descrizione della comunità e delle sue celebrazioni in questo caso rimanda a un’“invasione di colori” positiva, addirittura auspicabile.


3 Nesbitt E. M., Sikhism: a very short introduction.


4 Per quanto il Nord Italia non ne sia immune, la questione del lavoro nero appare molto più diffusa e discussa in Lazio, nel contesto agricolo dell’Agro Pontino. Alle condizioni lavorative dei braccianti punjabi di questa zona si è interessato soprattutto il sociologo Marco Omizzolo: «Alcuni recenti studi, riprendendo l’impostazione anglosassone, parlano di lavori delle cinque P, ossia pesanti, precari, pericolosi, poco pagati, penalizzati socialmente. In effetti, la condizione del migrante sikh impiegato in agricoltura presenta in pieno questi cinque tratti» Omizzolo M., I sikh a Latina. «L'introduzione della legge Bossi-Fini, nel 2002, ha inasprito le condizioni necessarie per ottenere o mantenere il visto in Italia, rendendo gli immigrati più inclini ad accettare qualsiasi tipo di impiego regolare» Azzeruoli V., Legami tra pianure.


5 Proprio l’agentività animale si trova al centro di uno studio del 2012 relativo al comportamento bovino; le ricercatrici mettono a confronto le variazioni nel comportamento degli animali in diversi ambiti: tra membri della mandria, tra vacche e macchinari adottati nell'azienda e tra vacche e allevatore. Il punto di partenza è, in un'ottica zooantropologica, quello di riconsiderare il ruolo degli animali da reddito nelle aziende: «La nostra tesi è che il lavoro non sia un’attività specificamente umana e che gli animali da cortile, come altri tipi di animale, collaborino al lavoro, non semplicemente perché indotti a farlo ma perché essi si impegnano in quanto soggetti. Gli animali da cortile, semplicemente, non “funzionano”, contrariamente a quanto postulano le scienze zootecniche che teorizzano gli animali come “macchine animali”. I risultati dimostrano che le vacche fanno ben altro che, semplicemente, funzionare; investono la loro intelligenza e le loro emozioni nel lavoro» Porcher J., Schmidt T., Dairy Cows: Workers in the Shadows?.



*Satya Tanghetti ha conseguito una laurea magistrale in Antropologia Culturale ed Etnologia, conducendo uno studio etnografico sui mungitori punjabi in Emilia-Romagna. Oltre all'ambito indologico, affrontato in chiave etnografica, si interessa della svolta ontologica in antropologia e delle relazioni tra umani e non-umani.


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