La sconfitta del sole

Pierluigi Bizzini / Preludio II

09 dicembre 2021

Avevo dieci o undici anni, quando vidi per la prima volta un vigile del fuoco da vicino. Riposava pallido pallido in una bara, coricato su quella che doveva essere una comoda imbottitura. La bara era di un legno spesso dalle venature scure, che scivolavano sulla superficie lucida come sottili capelli bagnati. Il vigile dormiva, ignaro di tutto e tutti, con indosso la sua divisa, che a onor del vero mi deluse, in quanto la credevo fiera e decorata. Pensavo che accanto a un vigile del fuoco avrei fiutato del fumo, il crespo odore di legna e foglie bruciacchiate, il sudore delle braccia irrigidite dal duro lavoro, odori così forti da farmi arricciare il naso. La divisa però mi parve sciatta e non puzzava affatto. Quel corpo che la riempiva era noioso e annoiato: indossava un pigiama, non una divisa.


Un manipolo di persone si accalcò cheto cheto sul corpo del vigile. Stavano tutti appollaiati come piccioni dalle teste molli e dal mento adunco; guardavano il morto dall'alto in basso, con la spocchia raccolta di chi è vivo, e qualcuno sospirava, qualcuno faceva di no con la testa, altri – nascosti dalle occhiate vacanti della povera vedova seduta più in là – annuivano appagati per averla scampata. 


Con me c'erano Jacopo e Davide. Il vigile era il papà di un nostro amico, Vincenzo. C'è da dire che non era un vero e proprio amico, era un conoscente del quartiere, ma quel giorno divenne nostro amico in virtù del fatto che gli era morto il padre. Prima non lo consideravamo più di tanto. Non sapeva giocare a pallone e non sapeva far ridere; questo lo spogliava di ogni curiosità ai nostri occhi. Eppure, aveva appena perso il padre, il che è tutto dire: a noi il padre non era mica morto. Vincenzo divenne grande in un baleno. Quando avrebbero posato la bara nell'alto loculo familiare, Vincenzo si sarebbe inginocchiato sulla piccola impalcatura in lamiera con accanto un operaio stanchissimo e il cemento fresco del loculo si sarebbe indurito a una velocità tremenda; con l'indice, Vincenzo avrebbe disegnato un cuore, con una V. e una G. al suo centro (tuttora, non conosco il nome del padre di Vincenzo, ma poco importa). Finito il funerale, Vincenzo avrebbe smesso di essere nostro amico e poi sarebbe tornato bambino.


Quella mattina però, eravamo tutti a casa sua. Vincenzo non si trovava, doveva essere in un’altra stanza, accudito da qualche familiare; volevamo cercarlo ma la calca era eccessiva, le gambe degli adulti troppo alte. Il morto però volevamo vederlo bene. Fu Jacopo a interrompere la partita e a ricordarsi della veglia funebre, forse dovremmo andare tutti quanti, ci disse tutto trafelato. Posammo il pallone su un grande vaso nell'androne del palazzo e salimmo le scale.


Quando la calca si smembrò – chi andò alla finestra, chi sulle sedie, chi si appoggiò al muro, chi scappò a casa propria – ci avvicinammo sottecchi anche noi al vigile dormiente. Il volto di G. era così candido che mi venne spontaneo chiedermi perché i morti non sudassero con questo caldo, vestito com'era poi. Immaginai come sarebbe stata la mia vita priva di sudore: avrebbe significato la definitiva sconfitta del sole. Giocare e giocare nel solleone, asciutti come l'ombra; anzi, potevamo essere noi l'ombra. Il vigile dormiente aveva vinto il sole e l'invidia che provai fu tanta. La vedova ci guardava commossa della nostra innocenza, ci provava almeno. Ma lei non sapeva una cosa, ovvero che noi non eravamo affatto innocenti, ma non perché avessimo compiuto chissà quale delitto, no, è solo che tutti gli adulti dimenticano che i bambini sognano e progettano ogni sorta di eccidio: padri, madri, nonni e nonne, zii, maestri e maestre, medici, negozianti, l'intera flottiglia di visi ruvidi e tette cascanti, ecco, che cadano a una a una, che i bambini kamikaze si lancino con i loro aeroplanini di carta sulle torreggianti tempie dei grandi, degli adulti annoiati e tonanti di ordini, di premure, di amore. Macché innocenti, cara signora lacrimevole. Innocente è suo marito, il vigile dormiente, che riposa beato, fiero col suo scettro e la sua corona forgiati col niente: il re in pigiama che ha sconfitto il sole.


Davide indossava una maglietta di una taglia più grande. Cadeva sulle spalle fin giù alle ginocchia, e gli lasciava ampi lembi di pelle alla mercé delle nostre manate. E Jacopo ne approfittò giusto in quel momento: un gesto rapido e inesorabile, la mano tesa a forma di vela che con una sferzata, come scossa dal vento, si schiantò sul collo impreparato di Davide. Uno schiocco come di frusta e subito una bestemmia sconquassò l’aria. Le nostre risate scoppiarono come abbai di veri bastardi. La vedova ci lanciò il fazzoletto sgualcito di moccio, ci insultò, insultò le nostre madri e noi scappammo a gambe levate, un tornado di passi sulla rampa di scale, preso il pallone, sfondato il portone, e guai a sudare, perché saremmo andati a vincere il sole.


Per sempre indipendenti

La linea editoriale di Alea è e sarà sempre indipendente, provocatoria e indisciplinata. Il nostro budget dipende esclusivamente dalla partecipazione dei lettori e delle lettrici al progetto. Ed è solo a loro che rispondiamo. Devi sapere che il 50% dei nostri costi è interamente dedicato alla retribuzione degli autori e dell’autrici della rivista. È una cifra importante, ma siamo convinti che nel nostro piccolo sia fondamentale valorizzare il lavoro culturale e di ricerca scientifica. Inoltre, è grazie a chi ci sostiene che possiamo mantenere aperto questo spazio, rendendo sempre più accessibile Alea con contenuti e approfondimenti di qualità. Se ti piace quello che stiamo facendo, abbonati alla rivista.

Abbonati ora