Il lato oscuro della simbiosi

Roberta Raffaetà

12 marzo 2024


Microbial Mats in Yellowstone National Park in Wyoming © Penny Higgins, 2009.



«We are all one»: dalla teorie sociali più raffinate, agli slogan ambientalisti, fino alle dottrine New Age, l’idea dell’interdipendenza anima l’inizio del Ventunesimo secolo. Il concetto di simbiosi incarna in maniera iconica questa idea, persino certificandola con il marchio di “scienza”. Sym-biosis significa “vivere assieme”. Il termine sottolinea l’interdipendenza di ogni forma vivente e ha l’enorme merito di dislocare la fissità e il narcisismo dello sguardo antropocentrico occidentale moderno. Al tempo stesso, la quasi esclusiva enfasi sugli aspetti positivi dell’interdipendenza non permette – a mio parere - di mettere in atto una vera connessione con l’alterità. In questo mio breve contributo cercherò quindi di prestare attenzione anche agli aspetti "negativi" del vivere in relazione, ovvero le disconnessioni, la violenza e la vulnerabilità. Volgere lo sguardo al “morire-con” e non solo al “vivere-con” è, a mio avviso, l’unica via che può permettere di vivere genuinamente con l’altro, sia esso umano o non-umano, al di là di bella ma vuota retorica.


Secondo la microbiologia tradizionale esistono tre modalità d’interazione: il parassitismo, il commensalismo e il mutualismo. Il primo indica una relazione tra due organismi in cui uno (l’ospite) è danneggiato dall’altro (il parassita) che ne ricava invece dei benefici. Nel commensalismo esiste un beneficio per uno dei due organismi ma non per l’altro, mentre nel mutualismo esistono benefici per entrambi. Lo studio dei processi simbiotici ha una lunga e affascinante storia1 che affonda le sue radici in Russia, prosegue in Olanda e arriva fino alla biologa statunitense Lynn Margulis – madrina del concetto moderno di simbiosi. Secondo Margulis, le categorie di parassitismo, commensalismo e mutualismo derivano da una mentalità economicista che poco ha a che fare con la scienza. Secondo Margulis tutto è simbiosi, un’ipotesi confermata dalle recenti ricerche sul microbioma che mostrano il carattere situato dei processi simbiotici che posso risultare in condizioni patologiche tanto quanto benefiche.


A dispetto della sua variabilità, il concetto di simbiosi è divenuto negli ultimi anni un vero e proprio feticcio sociologico. L’antropologia ha sempre sottolineato che le relazioni hanno primaria importanza rispetto all’esistenza di entità singole: l’antropologia della parentela ha mostrato che il singolo ha valore in quanto parte di una relazione e il concetto di “incorporazione” ha illustrato come i confini del corpo non siano necessariamente i confini dell’umano. Secondo l’antropologo inglese Tim Ingold, i vari legami che si costituiscono tra gli esseri umani ed il loro ambiente sono la vera sostanza dei corpi e “essere vivi” significa in prima istanza essere capaci di intrecciare relazioni con il proprio ambiente.


Ma è proprio l’antropologia che ci porta a riflettere criticamente sullo stesso concetto di relazione. Secondo l’antropologa inglese Marylin Strathern, essere in relazione vuol dire necessariamente escludere qualcosa o qualcuno da quella relazione. Comprendere ciò vuol dire accettare la nostra vulnerabilità in quanto esseri interdipendenti ma anche prendere in considerazione la violenza connaturata al semplice fatto di vivere.


Il pianeta interdipendente di cui facciamo parte richiede che non solo viviamo con e per altri ma anche – e più importante – moriamo con e per altri. L’antropologa australiana Deborah Bird Rose nel suo libro Wild Dog Dreaming. Love and extinction descrive la morte come una parte indissociabile della vita: «To be alive is to know that one’s life is dependent on the deaths of others». Per Bird Rose la morte non è una deviazione da uno stato di cose ideale ma è parte della vita: «Killing is part of life because death is part of life». Bird Rose propone di considerare morte e violenza come la porta attraverso cui si genera valore nel momento in cui ci si prende la responsabilità della violenza e della morte che provochiamo in quanto esseri simbiotici in un pianeta simbiotico. Prendersi la responsabilità della violenza del vivere significa avere la giusta riconoscenza e prevedere delle compensazioni per le entità che muoiono con e per la mia vita.


Quindi non è vero che «we are all one»: nella simbiosi c’è chi muore e c’è chi vive. Accorgersi di ciò e trovare forme di restituzione è l’unica via che abbiamo per essere eticamente interdipendenti, e quindi veramente in connessione.



Note:


1 Raffaetà, R. 2020, Antropologia dei microbi.



*Roberta Raffaetà è professoressa associata di antropologia culturale e vice-direttrice di NICHE (The New Institute: Centre for Environmental Humanities) all’Università Cà Foscari di Venezia. Si occupa delle intersezioni tra antropologia medica, antropologia ambientale antropologia della scienza e tecnologia. Attualmente coordina il progetto HealthXCross (finanziato dal Consiglio Europeo della Ricerca) che analizza come la salute e l’umano vengono riconfigurati nelle ricerche sul microbioma. Questo articolo è stato pubblicato in Alea n.3: Simbiosi.


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