Il culto delle metafisiche

Francesco Danesi / Preludio I

31 maggio 2021

«Il grande Maurizio Blonder!».

Il grande Maurizio Blonder.


«Eccolo qua, il grande Maurizio!», esclamò di nuovo il Peuckert con la fronte imperlata di sudore e i calzoncini color senape. Eccolo qua il Peuckert, e chissà come si pronunciava quel Peuckert, quello stridio di consonanti mute, quel sorriso grasso e saputo, Pauchér forse, ma meglio evitare figuracce, non era il caso di cacciarsi in dispute linguistiche già di prima mattina, con quel Peuckert poi, lasciamo stare, che il sole già scottava, la cima era lontana e mica era detto che il Peuckert fosse Pauchér, anche se forse lo era. Carissimo, buongiorno, così sul generico, senza rischiare, una stretta di mano, come andiamo?, e il sorriso del Peuckert, o Pauchér?, si aprì come un ventaglio: «Beh, ma qui è una meraviglia, come vuole che si stia?», e poi via per la stradina dinoccolata che fuggiva dal paesotto, Maurizio Blonder davanti, il Peuckert dietro, e Maurizio Blonder aveva un bel passo disteso, ma sui suoi passi posava uno sguardo crucciato, mentre il Peuckert lo seguiva diligente, ma il passo del Peuckert era tutto un affanno, e il suo sguardo un gocciolio di fatica allucinata.


Per prima cosa, abbiamo detto, occorre ripensare l’oggettivo nell’uomo, vale a dire, quanto di dato – senza scomodarne l’etimologia – le cosiddette scienze ci hanno consegnato.

Maurizio Blonder si riparò sotto la tettoia della Pizzeria Da Renato di Peppina e il Peuckert, o il Pauchér, approfittò di quella prima tregua all’ombra per rilanciare la conversazione: «Che idea organizzare qui la conferenza, su quest’isola strepitosa». Lo ripeté per ben tre volte, con il fiato rotto dalla calura e dalla salita, strepitosa, Maurizio, davvero strepitosa, un sorsino d’acqua, veramente strepitosa, complimenti per la trovata, e Maurizio Blonder minimizzava, si vedrà, c’è tanto da fare, riprendiamo?, e il Peuckert, magari Puchert, poteva mai pronunciarsi Puchert?, con quei calzoncini color senape da cui sgusciavano gambe tozze e villose, annuì con rinnovato vigore: «Quando vuole, Maurizio, picchia il sole eh, ma quando vuole…» e le pezze d’asfalto bollente lasciavano ora il posto a un ghiaino leggero e polveroso che si inerpicava tra villette abusive, reti di materasso, vitigni, campetti di pomodori e vespe 50 modello PX, senza cofanetto laterale, lo si toglie d’estate così il motore non si surriscalda, grande Maurizio, che meraviglia, strepitosa, e adesso Maurizio Blonder aveva ingranato un bel passo deciso, ma nei suoi pensieri avanzava l’inquietudine, mentre il Peuckert lo tallonava ansante, con i sandali in cuoio come martelli, e chissà cosa passava per la testa al Peuckert, o forse Puchert, che quell’agguato l’aveva di certo preparato con dovizia di particolari, che quel libro di Maurizio Blonder, il grande Maurizio Blonder, si sapeva che gli era andato di traverso e nell’ambiente, anzi nel giro, da mesi si andava sussurrando con malizia: «Chissà cosa gli è passato per la testa al Blonder», «Chissà cosa dirà il Peuckert» e ancora «Chissà alla conferenza».


Come ha scritto chi ci ha preceduto, poi, è stato necessario ripensare il soggettivo nel reale, vale a dire, quanto di prospettico e contingente vi sia nell’osservazione dei fatti empirici, ai quali l’uomo pare partecipare attraverso sistemi di simboli, credenze, pratiche e discorsi – gloria e tramonto dell’esegesi culturale.

Il Peuckert s’era risentito, era cosa nota nell’ambiente, anzi nel giro, e all’indomani dell’uscita del libro gli aveva scritto, caro Maurizio, e Maurizio Blonder aveva letto con scarso interesse quelle poche righe del Peuckert, o Puchert, perché già da tempo odiava quel suo stesso libro, “Il culto delle metafisiche: etnografia ed epistemologia nel contemporaneo”, e già da tempo avrebbe voluto tirarsi fuori dall’ambiente, anzi dal giro, rinunciare alla cattedra, rinunciare all’associazione, rinunciare alla conferenza, e poi a che altro? Proseguiamo nel bosco, farà più fresco, disse Maurizio Blonder, e il Peuckert, anche se Poicàr non suonava male, fradicio e paonazzo, con quei calzoncini color senape e con la maglia sozza di polvere e sudore, sorrise sollevato, già smaniava all’idea dell’ombra boschiva: «Così si fanno due chiacchiere, che questo sole picchia eh!» e Maurizio Blonder fece finta di niente, bevve un sorso di borraccia, controllò le stringhe delle scarpe, tirò il fiato, questo è il bosco della Falanga, disse poi mentre imboccava una strettoia tra due muri a secco, e mentre lo disse pensava che del libro non ne voleva sapere niente, delle critiche del Peuckert, anche se Poicàr non suonava affatto male, non ne voleva sapere niente, di quella visita a sorpresa del Peuckert due giorni prima della conferenza non ne voleva sapere niente, pura cortesia, pura formalità, una passeggiata insieme, «Lei che conosce l’isola così bene», nient’altro, ha una storia interessante il bosco della Falanga, disse ancora Maurizio Blonder per schivare l’agguato del Peuckert, sennonché il Peuckert giocò di rimessa, meraviglioso, davvero strepitoso, e ora accelerava il passo, quasi a rimettersi in pari con Maurizio Blonder, ma ben presto la via si fece ripida e il sorriso del Peuckert si irrigidì tra i tronchi, i massi e i rovi del bosco della Falanga, meraviglioso, senti che frescura.


Infine, sotto il peso della complessità, delle catastrofi e delle frammentazioni, i dualismi occidentali, ultimo baluardo del progresso – mi sia concesso un pizzico d’ironia –, sono crollati; abbiamo così assistito al risveglio di mondi possibili, di materie inerti e di soggetti altri, la genesi del multinaturalismo e del pluralismo ontologico – quella che in molti hanno accolto come la panacea di un sapere agonizzante.

Maurizio Blonder lo conosceva bene quel labirinto di arbusti, palmenti, rifugi scavati nella roccia e nevaioli, procedeva svelto, e svelti procedevano i suoi timori, mentre il Peuckert, che s’arrangi il Poicàr o il Peccher, avanzava goffamente tra ragnatele maligne e fronde violente, ostinato prima, disorientato poi, perché Maurizio Blonder era sparito tra le ombre del bosco della Falanga, meraviglioso sì, e che frescura, Maurizio?, ma la voce del Peuckert si schiantava sorda nella vegetazione bruna del vulcano, tu guarda che situazione, Maurizio?, e non gli restava che sperare nel passaggio di qualche escursionista del luogo, tu guarda che modo, non gli restava che attendere nel bosco della Falanga, tu guarda che assurdità. Tutta colpa di quello stupido libro, il culto delle metafisiche, con cui Maurizio Blonder aveva disonorato l’intero ambiente, anzi la disciplina tutta, tacciando il Peuckert, gli stimatissimi colleghi e le stimatissime colleghe di leziosità speculativa, per usare le sue parole, e di ingenua astrattezza, ancora con le sue parole. Ma Maurizio Blonder ora vagava tra le sagome d’ombra del bosco in preda all’angoscia, poco gli importava del Peuckert e delle sue riserve, perché adesso le foglie nella terra erano i passi di lei, i tronchi sottili erano le gambe di lei, e così i rami lunghi le braccia, i fili d’erba i capelli e i frammenti di sole tra gli alberi gli occhi. Era troppo tardi per pentirsi del libro, della conferenza, delle metafisiche e delle finzioni che si era costruito in uno dei tanti altrove, Maurizio Blonder lo sapeva, incespicava nei sassi, si voltava inquieto, è troppo tardi, lo capiva, ti posso toccare ormai, e annusare, guardare, sentire. Insieme evasero dal bosco della Falanga, lei davanti, Maurizio Blonder dietro, e lei lo invitava a seguirlo nel vento che discendeva lungo il crinale, soffiando leggera verso la punta più a nord dell’isola.


L’ultimo atto disvelerà l’inganno disumano con cui è stato travisato il mondo. C’è chi pretende di farsi interprete delle voci e delle realtà riflesse che la modernità, con la complicità dell’ideale scientifico, aveva ridotto al silenzio. Nell’esaltazione di quest’impresa salvifica, tuttavia, costoro non si accorgono che a rimbalzare tra le pareti della caverna è la loro voce, non quella della pietra, non quella dell’aria che riempie i loro polmoni, e non quella della coccinella che hanno schiacciato inconsapevolmente.

Chissà che fine aveva fatto il Peuckert, quel poveretto, il Peccher, con le sue perplessità e il suo risentimento, con la sua posizione di prestigio nel dibattito internazionale, con le sue conoscenze nell’ambiente, anzi nel giro. Chissà. Maurizio Blonder si era dedicato anima e corpo al suo libro, per tre anni solo pagine e silenzio, qualche donna, certo, ora confessava, mi sembrava di tradirti, e infatti poi aumentavano le pagine e i silenzi, in quell’altrove dove non era più Maurizio Blonder, quello che per l’ultima volta, tre anni prima, l’aveva accompagnata sull’isola, il Maurizio Blonder che ora lei toccava, annusava, guardava e sentiva, diverso dal Maurizio Blonder che, in uno dei tanti altrove, aveva finto di essere, un semplice Maurizio Blonder, un nome e un cognome, un libro e molti silenzi. La seguì fino a uno sperone roccioso che si affacciava sul mare, lei che adesso si mescolava alle onde smeraldine e lui, Maurizio Blonder, che la respirava nella salsedine degli spruzzi d’acqua, ma da lei non giungeva una parola che una, e lui decise di aspettare, di esser paziente, di ascoltare, ti sento nello sciabordio delle acque, ti vedo nel crepuscolo, ti tocco nella sabbia, ma non una parola che una, e poi fece buio e del Peuckert, del libro, della conferenza, dell’ambiente, anzi del giro, non gli importò più nulla, perché di Maurizio Blonder, che ora si immergeva nella notte, l’indomani nessuno avrebbe più saputo nulla e il Peuckert, con quel suo sorriso grasso, avrebbe commentato malizioso: «Ma come, il grande Maurizio Blonder?», senza sapere che Maurizio Blonder ora nuotava fino a perdere i sensi, abbandonandosi alle dita fredde di lei. Lei che non diceva una parola che una.


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