Graeber, ultima frontiera

Francesco Danesi della Sala

13 luglio 2023


William Shatner nel ruolo del Capitano Kirk e Antoinette Bower in quello di Sylvia, in Star Trek – NBC Television, 1967.



Il mestiere dell’antropologo. Un mestiere veramente ridicolo quello dell’antropologo. Fare le valigie, prendere due libri, tre domande, un taccuino, e via andare da qualche parte, spesso lontano, talvolta vicino, purché sia altrove, un altrove un po’ fuori mano e di cui s’è scritto poco o nulla preferibilmente. L’antropologo. Ancora a cercare paesi lontani, genti lontane, lingue lontane, usi e costumi lontani. Che povero imbecille, l’imbecille. Povero, benché non sia una sua esclusiva, perché nella carriera accademica le briciole sono poche e gli affamati tanti. Imbecille due volte, perché quella carriera se l’è scelta, bevendosi le fandonie meritocratiche delle amministrazioni universitarie neoliberiste, e di nuovo imbecille perché, manco a dirlo, nel bel mezzo delle più gravi crisi planetarie da un secolo a questa parte, egli non fa che perder tempo con il suo piccolo diario da giovane marmotta, dilettandosi in futili chiacchierate su argomenti “di nicchia” e gingillandosi con paroloni astrusi che valgon giusto gli scaffali di fricchettoni e medici in pensione. Roba da buffoni. Per non parlare di questa farsa del lavoro sul campo. Settimane, mesi, anni, dentro e fuori dal campo, avanti e indietro, oggi qui, domani là, un pendolarismo odioso e patetico. Ma guai a disturbare l’antropologo sul campo, con le sue domande, sempre sbagliate!, con le sue osservazioni, sempre fuori luogo!, con il suo sguardo, sempre inopportuno! E una volta tornato, guai a turbarne le elucubrazioni, le intuizioni, le dubitazioni: egli deve scrivere, scrivere, scrivere. Interventi per conferenze, saggi per simposi, articoli per riviste scientifiche; e ancora scrivere, prefazioni, preamboli, premesse, introduzioni, postfazioni, chiose, recensioni, repliche, repliche alle repliche. Il sudore dell’antropologo. Il libro dell’antropologo, infine. A metà tra letteratura, scienza e confessionale psicoterapico. Un crogiolo di aneddoti più o meno imbarazzanti, pappardelle intimistiche senza capo né coda, e teorie raffazzonate con la refurtiva di qualche rapina nei dipartimenti di filosofia. Che idiozia. Una scienza, se così la si può definire, che per sua stessa ammissione rifiuta l’oggettività. Una metodologia, cioè un’arte dell’improvvisazione, che preclude qualsiasi spiegazione o interpretazione di carattere generale. Si parli pure dell’umanità e della cultura, purché sia solo e soltanto quella umanità e quella cultura. Ma è questione di poco, perché, di nuovo, bisogna prendere e andare, con qualche libro in più, altre domande ottuse e il solito taccuino pieno di cretinate che è meglio dimenticare. Il campo non ha mai fine. La maledizione del campo: illudersi di entrare in un campo, pretendere di descrivere quel campo e accorgersi di non aver capito nulla di cosa è il campo. Ha scritto tutto l’antropologo, ma non ha scritto niente. Tutto è cambiato, le persone son cambiate, le parole son cambiate, i luoghi son cambiati, l’aria è cambiata, persino lui è cambiato. E allora è tutto da rifare, rimbastire, riaccertare, rideterminare, ripensare, riformulare, rivalutare, ripresentare. Che figura da cioccolataio. L’antropologo. Non sa spiegare quel che succede in un villaggio di cento anime, figuriamoci se potrà mai dire qualcosa di utile sul mondo e sul presente.

 

David Rolfe Graeber è stato un antropologo. Uno di quelli che a un certo punto si imbarcò per un altrove inappuntabile, roba da manuale – lontano, esotico al punto giusto e con qualche situazione bizzarra di cui nessuno s’era curato prima: Betafo, in Madagascar. E di quella comunità malgascia, con i suoi intrecci spinosi di schiavitù, potere e magia, ovviamente scrisse un libro, Lost People (2007), la cui redazione durò quasi un decennio. Di quel libro s’è detto poco o nulla: passò praticamente inosservato e in pochi lo ricordano. Ma l’antropologo Graeber era già tutto lì, in quelle 469 pagine minuziose di osservazioni, conversazioni, personaggi rubati a Dostoevskij (gli unici tascabili che aveva buttato in valigia) e supposizioni bislacche. Era già tutta lì l’immensa e fastidiosa curiosità con cui David Graeber avrebbe guardato, per tutta la vita, all’immaginazione umana. Si potrebbe dire che era destinato a quel mestiere. Nato nel 1961, figlio della classe operaia newyorkese, David all’età di 14 anni passava il suo tempo traducendo geroglifici maya e scambiandosi lettere con un professore di archeologia dell’università di Yale. Ruth, la madre, cuciva reggiseni; Kenneth, il padre, faceva l’operaio in una tipografia. Ma è anche vero che Ruth era stata tra le attrici protagoniste di Pins and Needles, un musical finanziato dai sindacati con cui una curiosa compagnia di operaie tessili si era presentata a Broadway; e che Kenneth, negli anni Trenta, aveva combattuto al fianco delle Brigate Internazionali durante la Guerra Civile Spagnola. Eccolo qua il giovane Graeber: un brillante ragazzetto di Chelsea con un paio di hobby inusuali e, soprattutto, una spiccata consapevolezza di classe maturata attraverso le biografie dei genitori. Un miscuglio di passioni, curiosità e preoccupazioni adolescenziali che in età adulta divenne una vera e propria eruzione di domande sconfinate e apparentemente ingenue: fondamentalmente, perché il mondo doveva girare così anziché cosà? L’antropologia, con tutte le sue stravaganti titubanze, non poté che attrarre le sue inclinazioni. A Chicago, sotto la guida del Prof. Sahlins, intraprese ufficialmente la via precaria della ricerca accademica e nel 1996 ottenne il suo dottorato di ricerca, presentando la prima rielaborazione dei due anni di gavetta sul campo trascorsi in Madagascar. Il buon Sahlins non si era fatto sfuggire le ambizioni di Graeber ma bisognava pur costruire solide basi: intanto cominciamo da questo piccolo mondo malgascio, sembrò suggerirgli, cerchiamo di capire perché laggiù gira così anziché cosà. Il resto verrà da sé.

 

E il resto, infatti, venne da sé. In Madagascar, tra le altre cose, Graeber aveva maturato un grande interesse per le forme di organizzazione sociale che rifiutavano il potere gerarchico. Eppure, la sola pratica di ricerca scientifica sul tema non bastava affatto. Un vuoto andava colmato. Fu un trafiletto di giornale, visto di sfuggita, a farlo. Seattle, 1999: erano appena scoppiate le proteste contro l’Organizzazione Mondiale del Commercio e il movimento di azione diretta che riuniva i manifestanti fulminò il fresco assistente di cattedra a Yale. L’antropologo Graeber, partecipando in prima persona alla rete anarchica di protesta, scoprì l’attivista Graeber: il Prof. Graeber finalmente aveva trovato David Graeber. Fu un momento decisivo, anzi, definitivo per la sua carriera. Parallelamente all’attività istituzionale, sempre più orientata all’analisi critica dei sistemi capitalistici, finanziari e burocratici – gli incanti stregoneschi che facevano girare il mondo così anziché cosà –, Graeber si rese sempre più protagonista nella sfera pubblica, avviando collaborazioni con numerose testate internazionali, contribuendo a diversi movimenti di giustizia globale e promuovendo i principi più genuini dell’anarchismo. Ben presto, però, scoprì che ai piani alti del mondo accademico il gioco da fantasista non riscuoteva grandi favori – specialmente quando la stessa autorità istituzionale, con le sue logiche subdole e sotterranee, diventava bersaglio di critiche pungenti. Nel 2005, l’Università di Yale ritirò il contratto che avrebbe garantito a Graeber una cattedra fissa, adducendo motivazioni a dir poco vaghe sull’insufficiente qualità del suo lavoro di ricerca scientifica. Le proteste dei colleghi furono vane. David Graeber era un tipo “politicamente” scomodo e ficcava il naso dove non doveva. Meglio liberarsi di questo anarchico da quattro soldi.

 

Lo scandalo del suo licenziamento fece il giro di tutti gli Stati Uniti. David provò a bussare alle porte di altre università americane, ma non ci fu niente da fare. Nessuno voleva avere a che fare con una trottola impazzita e con eventuali clamori indesiderati. Toccava andare in esilio in Gran Bretagna, dapprima all’Università Goldsmith e poi alla London School of Economics, dove nel 2013 riuscì a diventare professore ordinario. E proprio nella condizione di esiliato, il percorso intellettuale e attivistico di Graeber divampò in tutta la sua luminosità – anche grazie a una rinnovata rete di amicizie, affetti e colleghi che non aveva mai smesso di supportarne il lavoro. Nell’ultimo decennio della sua vita, Graeber si dedicò all’insegnamento, alla scrittura e all’attivismo con energie apparentemente inesauribili. Sono gli anni delle contestazioni di Occupy Wall Street, ad esempio, cui partecipò assiduamente per denunciare le ingiustizie del regime finanziario globale. Ma sono anche gli anni in cui le briglie del suo eclettismo accademico vengono definitivamente sciolte, regalando a un pubblico vastissimo alcuni dei testi più incisivi della riflessione antropologica contemporanea: da Debito (2011), a Bullshit Jobs (2018), passando per The Utopia of Rules (2015), fino all’ultimo ambizioso lavoro L’alba di tutto (2021), frutto di una collaborazione con l’amico archeologo David Wengrow. Poi, una gita a Venezia, gli scherzi con gli amici e la moglie, una foto in maschera, un gelato, un caffè. Il malore improvviso. La corsa in ospedale. Era il 2 settembre 2020. Una pancreatite emorragica improvvisa si portava via David Graeber.

 

Questo numero speciale di Alea non è un semplice omaggio a David Graeber. L’importanza e l’irrequieta trasversalità del suo lavoro è stata riconosciuta pressoché ovunque, tanto tra i colleghi delle più svariate discipline accademiche, quanto tra le reti politiche, attivistiche e mediatiche in cui è stato immerso. Graeber ha radicalmente trasformato ed esteso il concetto di “lavoro sul campo”, abbattendo finzioni e ipocrisie professionali, per aprire l’indagine antropologica a una serrata e smaliziata critica dell’universo capitalista-finanziario contemporaneo, con le sue contraddizioni quotidiane, le sue torsioni burocratiche e le sue brutalità neoliberiste. Egli ha saputo far dialogare piccoli e grandi interrogativi sullo stato delle cose, qui come altrove, apprezzando le differenti forme di immaginazione culturale dell’umanità e cogliendo il potenziale creativo di ogni singolo individuo e comunità nel generare e opporre al potere autoritario altre idee di società. Non è un caso che i suoi lavori più noti siano anche quelli più marcatamente creativi e sperimentali, con argomentazioni di portata smisurata e interpretazioni azzardate, se non esplicitamente provocatorie. Graeber è sempre stato netto, sincero, a tratti sfrontato, e per questo divisivo – gli economisti ne sanno qualcosa. Ma egli è anche e soprattutto stato un testimone autentico della trans-disciplinarità, dell’eclettismo, del dialogo e della messa in pratica – prima che diventassero trastulli modaioli – di prospettive femministe e anarchiche. Ebbene, ricostruire l’immagine in movimento della sua figura va oltre le possibilità di questa rivista. Vorremmo però restituire ai lettori alcuni fugaci scatti rimasti ai margini della pellicola biografica e intellettuale più nota. Scatti particolari, a tratti sfocati, oppure caratterizzati da composizioni spiazzanti, ma senz’altro esemplificativi dell’animo curioso, impertinente e imprevedibile di David Graeber.

 

Il numero presenta dunque quattro saggi originali di cui per la prima volta pubblichiamo la traduzione. Qual è il punto se non possiamo divertirci? è un interessante esperimento speculativo con cui l’autore discute l’esistenza del “gioco” nel mondo animale, illustrando le diverse posizioni della comunità scientifica e presentando poi una personalissima interpretazione del fenomeno, che arriva a toccare questioni delicate come l’evoluzione delle specie e l’emergere della coscienza. Impossibile non credere: magia e politica presenta un’affascinante lettura critica dell’arte politica contemporanea, paragonata a un torbido sistema di inganni e credenze, in cui verità e falsità sono plasmate da pratiche magiche e illusionistiche di cui solo la sensibilità antropologica può cogliere la portata. Contro l’economia nasce come recensione di un importante volume dello storico ed economista Robert Skidelsky sul rapporto tra governo e denaro; per Graeber, questa è l’occasione perfetta per ribadire le sue tesi sulla realtà economica odierna e così nel brano si sviluppa un brillantissimo e inaspettato dialogo a due voci in cui, aldilà dei tecnicismi discussi, emergono chiaramente le idiosincrasie degli indirizzi politico-economici attuali. La spada, la spugna e il paradosso della performatività, infine, presenta un articolo scientifico dell’autore, tratto dall’esperienza etnografica in Madagascar: sebbene ci siano alcune sfumature di tenore più marcatamente accademico, abbiamo voluto offrire ai lettori una prova tangibile della condotta scientifica di Graeber, laddove i piccoli interrogativi sulla vita di una comunità malgascia finiscono per intrecciarsi a questioni umane di portata secolare, come il fato, la sorte e il delicato equilibrio tra fattualità e credenze superstiziose – i più attenti sapranno certamente ritrovare i punti di tangenza e continuità con i testi precedenti.

 

Il montaggio delle suddette sequenze è intervallato da ulteriori contributi della nostra redazione. È doveroso menzionare la conversazione, curata da Pierluigi Bizzini, con l’artista e attivista Nika Dubrovsky, che di David Graeber è stata moglie, complice e compagna di mille e più giochi immaginativi. Silvia Pizzirani, invece, ha sapientemente rielaborato alcuni scritti dell’autore sugli ideali anarchici, trasformandoli in quiz davvero inusuale: i lettori potranno dunque testare il proprio livello di anarchismo e scoprire il profilo che più li rispecchia. Infine, il numero si chiude con l’epilogo retrospettivo di Pasquale Menditto, una disamina schietta, puntuale, persino personale, che oltre a ricomporre limpidamente il quadro delle intuizioni di Graeber, offre ai lettori un’immagine inedita dell’antropologia quale possibile “arte dell’alternativa”. Il Prontuario finale e altre piccole chicche le affidiamo al piacere della scoperta.

 

Concludo con una nota di metodo: David Graeber, quando scriveva, pensava principalmente a sua madre Ruth e alla sua passione per la lettura. Ruth avrebbe capito quanto scritto? Questo era il suo parametro stilistico. Oltre a ciò, Graeber, certamente facilitato dalla lingua inglese, è stato un attento sperimentatore dell’inclusività linguistica, adottando spesso soluzioni sensibili alle questioni di genere e all’egemonia dell’universale maschile. In questa pubblicazione ci siamo impegnati a rispettare quanto più possibile, senza mai forzare la mano, un indirizzo di stile e sensibilità che a nostro parere non sempre è stato valorizzato: la traduzione e l’adattamento dei saggi adottano dunque espedienti inclusivi e di intellegibilità che abbiamo attentamente valutato e discusso; laddove si trovino dei maschili sovraestesi, come nel caso di “economisti”, la scelta intende rispecchiare il posizionamento critico dell’autore rispetto alla natura patriarcale e maschilistica dell’ordine capitalistico contemporaneo, di cui certe figure di potere ne rappresentano l’emanazione.

 

David Rolfe Graeber amava Star Trek. Amava le imprese immaginative di individui con differenze apparentemente insuperabili, spediti all’ultima frontiera dello spazio e posti di fronti a continue sfide per la sopravvivenza collettiva. Graeber ha spinto l’antropologia all’ultima frontiera del presente. Ha lottato per farlo, ma si è anche divertito. Perché l’ultima frontiera non è un termine, ma un punto di inizio alternativo.

 

David Rolfe Graeber è stato un antropologo. Proprio un mestiere ridicolo quello dell’antropologo.



*Francesco Danesi della Sala è il direttore editoriale di Alea. Graeber, ultima frontiera è il prologo introduttivo estratto dal numero speciale Alea B2: David Graeber.


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