Good women

Chiara Tonon / Variazioni

10 febbraio 2022


Fine giornata, quartiere slum, Gulu (2019) – Fotografia dell'autrice



Nei quartieri informali dell’Uganda settentrionale, ogni casa ha una veranda. Si tratta di un gradino ampio circa un metro che precede l’ingresso dell’abitazione, riparato da un tetto in lamiera vagamente spiovente. È uno degli ambienti domestici più vissuti, luogo privilegiato per fare i mestieri e osservare la quotidianità altrui. Dal mattino e fino a sera, la veranda di ogni residenza è animata dalle attività domestiche di donne, ragazze e bambine.


Alle sei e mezza, su quel gradino, le donne di casa riempiono d’acqua i catini e cominciano le faccende, a partire dalla pulizia di latrine e pavimenti; dopo aver spazzato, inumidiscono uno straccio, lo sbattono a terra e lo trascinano all’indietro con le mani, disegnando una lunga “esse”, muovendosi da sinistra verso destra, con le braccia parallele tese a far pressione sullo straccio, il busto piegato rigido a formare con le gambe un angolo di quarantacinque gradi. L’azione viene ripetuta più volte al giorno, quando si accumula nuova sporcizia o si creano depositi piovani. Poi, nell’arco della giornata, si accende il fuoco, si predispone il cibo per cucinare, si lavano le stoviglie, si fa il bucato per tutta la famiglia. E ancora, si recupera l’acqua dal pozzo caricando la tanica da venti litri sulla testa o sulla spalla, si fa la spesa al mercato, ci si prende cura dei bambini.


Ogni attività richiede resistenza, tempo e programmazione. Lavare i panni, ad esempio, è un’arte che implica ore di gambe tese, schiena curva e movimenti decisi. Osservando dalla veranda, si ha l’impressione che tutte le donne abbiano incorporato a questo scopo una postura precisa: le braccia si agitano allo stesso modo, le mani producono un’identica quantità di schiuma, emettono il medesimo suono ritmato. Il giorno destinato al bucato è necessario svegliarsi prima e organizzare le tempistiche in modo da riuscire a portare a termine anche le altre mansioni di casa. Così la mattina presto, dopo le pulizie, si riempiono tre bacinelle d’acqua: le prime due servono per immergere gli indumenti e insaponarli, la terza per risciacquarli e contenerne gli schizzi, quando vengono strizzati con forza prima di essere stesi al sole. Solo dopo aver lavato una certa quantità di panni, le donne alzano nuovamente la testa e tornano in posizione eretta, prendono i catini, attraversano il giardino, li svuotano sui cespugli, sostituiscono l’acqua sporca e ricominciano.


Durante la settimana, se le ragazze hanno un impiego retribuito in città o sono impegnate a scuola, i mestieri vengono affidati a una domestica o sono rimandati alla sera tardi. Le venditrici al mercato partono da casa prima che il sole sia alto e rincasano con il buio, così come le maestre, le sarte o le commercianti. Neppure i giorni liberi prevedono riposo poiché, per non apparire pigre agli occhi della comunità, le ragazze sono tenute a dare prova di operosità, recuperando le mansioni casalinghe trascurate per altri impegni.


Nella “cultura acholi”, infatti, il modello di femminilità vigente prevede che solo le donne si facciano carico degli impegni domestici e quelle che rifiutano la fatica del lavoro sono esposte al biasimo di chi le osserva dalla propria veranda. D’altra parte, il modello di mascolinità prevede che gli uomini facciano fronte al benessere economico della famiglia, ricoprendo un ruolo strettamente decisionale e protettivo. Molti di essi, qualora fatichino a trovare un lavoro retribuito, si preservano dalla disapprovazione altrui comportandosi come prescritto dall’immaginario comune: declinando le faccende, simulando impegni ed esibendo la propria assenza da casa. Così, compagne e figlie, nonostante siano istruite, lavorino e guadagnino a volte più di loro, sono solite mantenere un atteggiamento servile, premurandosi di tutte le mansioni domestiche. In questo modo, uomini e donne si impegnano costantemente per aderire a ruoli socialmente riconosciuti.



Panni stesi (2019) – Foto dell'autrice



Le donne che ho conosciuto a Gulu, quando il livello di confidenza fra noi lo consentiva, denunciavano tuttavia la frustrazione di un’obbligazione vissuta come un’ingiustizia. L’insofferenza verso la loro condizione non necessitava in realtà di essere restituita a parole: emergeva chiaramente dagli sguardi assorti, dai passi trascinati, dal respiro affannato, dall’inappetenza, dai mal di testa ricorrenti, dalla schiena incurvata dagli anni di lavoro malgrado la giovane età, dal modo in cui gettavano il proprio corpo stanco sulle stuoie appena ne avessero occasione. Quanto riuscivano a fare in un’unica giornata di lavoro veniva percepito ed esternato con risentimento, eppure non era subìto passivamente. Se chiedevo a donne e ragazze per quale motivo non provassero a sottrarsi alle incombenze, mi rispondevano che nessuno avrebbe potuto svolgere i mestieri al posto loro: questi sarebbero rimasti semplicemente incompiuti poiché gli uomini non sarebbero stati in grado di svolgerli.


Un’insegnante sposata e madre di sei figli una volta mi ha detto:


«Una donna, in cuor suo, anche nel corpo, sente che per lei il lavoro è troppo, ma non può lamentarsi. Se non lo fai, nessuno lo farà al posto tuo! Se non lo fai, i tuoi figli dormiranno affamati. Se non lo fai, tuo marito ti lascerà e andrà in cerca di un’altra moglie. Noi donne lavoriamo non solo perché ci piacciono i mestieri, ma per prendere precauzioni contro la rottura della famiglia. Perché se una donna fa i mestieri e un’altra non li fa, l’uomo penserà: “Ok, meglio che vada con la prima”. E gli uomini sono molto pigri comunque! Credi che facciano i mestieri se tu non li fai? Non li faranno. E le persone rideranno di te!».


Non si tratta di subordinazione o di passiva accettazione di un ordine imposto. Le faccende domestiche sono, per le donne di Gulu, questione di orgoglio, di responsabilità, strategia di sopravvivenza. Svolgere le proprie mansioni è al contempo fonte di malessere e motivo di fierezza.


La maggior parte delle donne che ho conosciuto sapendo, a tratti desiderando, di non poter rifiutare i propri doveri, se ne faceva carico trasfigurandoli in occasione di riconoscimento, di distinzione e di vanto, rispetto a coloro che, rinunciandovi, dimostravano di non essere good women. Nonostante, infatti, quasi tutte dichiarassero di detestare le giornate trascorse tra stracci e fornelli, al tempo stesso consideravano ambigue coloro che si opponevano a quanto previsto dal modello “ufficiale” di femminilità. Io stessa, per esempio, venivo definita pigra o debole poiché incapace di sopportare determinati ritmi lavorativi. I miei progressi venivano tuttavia apprezzati e incoraggiati: dicevano mi sarebbe bastato trascorrere un anno intero in Uganda per diventare una good woman.


Nell’universo interiore delle donne acholi trova dunque posto una contraddizione: da un lato, la sensazione di essere costrette a lavorare come schiave; dall’altro, la scelta consapevole di protrarre quella medesima condizione per essere considerate migliori delle altre. Così, lo spazio esterno delle abitazioni diviene ad un tempo luogo di costruzione sociale del sé riflesso dalla collettività e spazio di formulazione di giudizi di valore. Questa tendenza si traduce in critica nei confronti di coloro che hanno scelto di sottrarsi alle fatiche coniugali e domestiche, ma anche in esortazione ad allinearsi alle prescrizioni per le proprie giovani figlie.

Spesso infatti le donne lamentavano e ridicolizzavano l’inadeguatezza degli uomini in cucina, ma rimprovero ancor più severo spettava alle adolescenti che non sapevano cucinare; di fronte alla loro goffaggine ci si chiedeva deluse: «Come faranno quando avranno un marito?». A proposito delle rotture coniugali dei vicini, gli uomini che avevano lasciato donne poco presenti in casa erano sempre commiserati e giustificati e, se guadagnavano bene, di loro si diceva che avrebbero meritato non una, ma più mogli perbene – anziché una sfaticata. E ancora, in ogni famiglia, il rientro delle figlie da scuola spingeva le madri a cedere loro ogni impegno domestico, permettendo invece ai figli maschi di rilassarsi mentre guardavano le sorelle affaccendate.


Del resto, per una madre, non istruire le figlie in tal modo avrebbe significato offendere la propria esistenza, esporsi al biasimo di familiari e conoscenti, limitare le loro possibilità di successo in ambito relazionale, coniugale e materno. Avrebbe altresì voluto dire non predisporle alla gestione delle difficoltà materiali e non educarle ad avere un atteggiamento solidale nei confronti dell’operato delle altre donne. In altri termini, lo scarto esistente tra intenzioni e azioni, per essere compreso, deve tener conto di numerose implicazioni che agiscono con forza paragonabile al desiderio di equità. Per questo la postura orgogliosa e giudicante delle donne, che fa della loro fatica un oggetto caro, può essere interpretata come una strategia di gestione emotiva dell’inevitabile.



Tragitto che separa lo slum dal pozzo dell’acqua potabile, Gulu (2019) – Foto dell'autrice



Impossibilitate dalle circostanze a sradicare una dinamica dolorosa, le donne acholi esaltano la propria resistenza, compiacendosi di aderire ad un modello socialmente accettato di femminilità. Accanto al risentimento, si fanno spazio l’orgoglio e il desiderio di ostentare la propria bravura, come mi ha spiegato un’amica ugandese durante la mia permanenza sul campo:


«Una good woman è una donna che lavora sodo. E con “lavorare sodo” si intende che devi essere molto forte nei lavori domestici: cucinare, lavare, pulire casa, lavorare sui campi. Devi portare rispetto. Devi avere quel bel corpo: un po’ in carne! Perché si pensa che se sei in carne sei forte, puoi sollevare e portare pesi, puoi camminare con energia, fare le cose velocemente. Questo è ciò che si pensa qui quando si tratta di resistenza».


In questo contesto, la renitenza al lavoro domestico viene percepita come sintomo di debolezza, mentre la fatica diviene indice di forza e devozione, traducendosi spesso in un potente strumento di seduzione.



*Chiara Tonon, dopo gli studi in filosofia si è laureata in Antropologia Culturale con un progetto di ricerca etnografica presso i distretti acholi dell’Uganda settentrionale.


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