Foto ricordi dall'Albania

Giulia Zotaj / Variazioni

11 marzo 2022


Adi e Angela, prossimi al matrimonio, vivono da qualche tempo per conto loro in una casa in affitto a venti minuti dal ristorante in cui lavorano con il nonno di lui, il quale invece vive accanto al locale. Mentre scendiamo dal monte Tomor, lo zio della ragazza sente che può mettere parola sulle loro scelte: è infastidito e li giudica come viziati perché non sono rimasti a vivere con il nonno, che pure dispone di una grande casa e che, a detta sua, «non sa stare senza di loro» perché «sono la luce dei suoi occhi».




Quando ci distacchiamo dalla tavolata e usciamo in cortile per fare due chiacchiere con Ermal, sua madre ci segue e ascolta avidamente la nostra conversazione, stando a lungo in silenzio, finché non menziono quella volta in cui mia madre fu segnalata nella bacheca pubblica comunale per aver indossato un capo di vestiario proveniente dall’estero, considerato “sconveniente” dal regime. A quel punto, la madre di Ermal ci parla di come le sia sempre piaciuto danzare e di quel suo professore di ginnastica che, vedendola ballare un pezzo rock alla festa di fine anno, le disse di smetterla di fare la “troia", intimandole di allontanarsi da lì.




Dijan mi racconta che oggi più che mai vorrebbe lasciare la sua vita rischiosa in Italia e tornare in Albania; dice che lì avrebbe una serenità e una tranquillità che qui non riesce a trovare. Per tutta la vita ha lavorato illegalmente in diversi paesi europei, non riuscendo mai a crearsi una famiglia o a trovare una stabilità personale. Guarda i giovani albanesi e dice che non pensano ad altro che a fare soldi e scappare dal loro paese, per questo lavorano male, sono indifferenti a quello che succede attorno a loro, sono degli insaziabili arrivisti: «Vogliono solo andarsene invece di restare e dare il massimo in Albania». Mi sono chiesta se lui stesso non avesse voluto restare invece di emigrare in Grecia all’età 13 anni, lavorando come bracciante per mantenere la sua famiglia. Mentre guida lo sentiamo spesso mettere una canzone in loop e cantarla sentitamente. Una traduzione degli ultimi versi dice che «alla fine del tunnel una luce ci aspetta, mi dicono “dai, sta andando bene”».




Aspettiamo per ore l’arrivo dei due “cugini” di Diane, hanno avuto degli imprevisti. L’attesa la passiamo nello stabilimento balneare di Aidan, che arriva verso le 16, offrendosi di portarci a pranzo in uno dei più costosi ristoranti di Durazzo per farsi perdonare del ritardo. Siamo in sette. Appena ci sediamo cominciano ad arrivare portate che nessuno ha ordinato: ampi piatti di pesce crudo, accompagnati da Pinot grigio costantemente rabboccato da camerieri che sembrano essersi uniti alla nostra compagnia. Io e Alex siamo esclusi da gran parte della conversazione dei nostri commensali, le cui voci alternano italiano e albanese. Veniamo coinvolti solo dopo che il clima si è sciolto e il vino ha fatto il suo corso. Aidan e Gledis sostengono ironicamente di aver frequentato il politecnico e di aver conosciuto lì Diane; Gledis in particolare rincara la dose dicendo di essere passato anche per gli istituti di Torino e Amsterdam: mentre li ascolto conversare, presto poca attenzione a quel dettaglio biografico, che non mi sembra particolarmente rilevante. In seguito scopro che si trattava di uno scherzo, un modo per sdrammatizzare l’esperienza del carcere vissuta in diversi paesi europei per narcotraffico: la prigione è di fatto il politecnico, in quanto luogo di formazione dove i tre “studenti” si sono conosciuti e sono diventati “cugini di mestiere”. 




Martedì 20 Agosto: comincia il pellegrinaggio bektashi (i Bektashi sono una confraternita islamica di derivazione Sufi, una dimensione mistica dell’islam) che porta i credenti sul monte Tomor (2416 metri, regione di Berat), dove si trova la tomba di un santo del culto, Abaz Aliu. Alcuni pellegrini si limitano a pregare, accendere ceri, altri sacrificano un agnello e con il suo sangue si segnano la fronte, per poi scendere ai piedi del monte e cucinarlo. Vengono allestiti degli accampamenti come in una grande festa estiva all’aperto: in quella zona, infatti, ci sono le braci necessarie a cuocere gli agnelli allo spiedo. In genere, i festeggiamenti collettivi durano fino al 25 Agosto e durante quel periodo i partecipanti alloggiano nelle tende o negli stabilimenti circostanti. Sulla cima del monte, Diane elargisce donazioni a degli avidi mendicanti e compra un agnello, dei ceri e dei souvenir kitsch da commercianti piuttosto chiusi e scontrosi. Anche il padre di Diane fa delle donazioni; secondo sua moglie, però, la cifra offerta è spropositata, praticamente una truffa, per cui ne nasce un’accesa discussione in cui il padre rifiuta qualsiasi argomentazione, ritenendo che questo gesto gli farà ottenere una benedizione. L’agnello acquistato viene ucciso e scuoiato davanti ai nostri occhi. Con il suo sangue Diane e i suoi genitori si segnano la fronte in segno di buon auspicio. La carne, pronta per la cottura, ci viene consegnata in un sacco nero: la sera stessa lo mangiamo in compagnia di amici e parenti, spartendone i pezzi secondo tradizione. La testa è il privilegio del nonno, il più anziano del gruppo, mentre all’ospite è data la possibilità di scegliere un pezzo a suo piacimento.




In casa, Linda è cercata da tutti; se qualcuno ha una richiesta, è lei a soddisfarla. È il braccio destro della nonna, nonché sua erede simbolica, e la sua giovane età le permette di dedicare tutte le sue energie alla cura della famiglia. Anche le richieste più scomode e quelle per le quali ci si aspetterebbe una certa autonomia vengono spesso esaudite da lei.


Nel museo etnografico di Kruje, cittadina situata nel centro-nord dell’Albania, c’è una riproduzione degli ambienti domestici dei tempi di Skanderbeg, soprannome di Gjergj Kastrioti – signore feudale e comandante militare – oggi considerato dagli albanesi un eroe popolare per aver guidato, nella prima metà del 1400, una lunga resistenza contro l’invasione ottomana dell’Albania: il suo castello a Kruje è il simbolo di questa lotta. Il museo in questione è ricavato da un’abitazione appartenuta ad una delle famiglie più abbienti della città, i Toptani, la cui dimora è stata ricostruita in modo da rievocare l’organizzazione degli spazi privati e delle funzioni sociali che li permeavano: al piano terra sono predisposti i luoghi dedicati al lavoro, mentre al piano superiore ci sono i locali occupati dalla famiglia. La sala da pranzo può essere osservata dall’alto grazie a dei corridoi che si affacciano su di essa: quando gli uomini pranzavano, separati dalle donne, queste li osservavo dall’alto per recepire i loro bisogni e potersi prontamente attivare per soddisfare qualsiasi esigenza.




«La Sicurezza Statale è il caro e potente mezzo del nostro partito, perché protegge gli interessi delle persone e del nostro stato socialista da nemici interni ed esterni».

—Enver Hoxha


«Questo museo svelerà aspetti della società albanese nelle condizioni di un regime il cui obiettivo era il controllo totale sui corpi e le anime umane».

—House of Leaves 


Oggi l’House of Leaves di Tirana (Shtëpia me Gjethe), museo della sorveglianza segreta, dedica i suoi spazi alle persone innocenti che furono spiate, arrestate, perseguite, condannate e giustiziate durante il regime comunista.



*Giulia Zotaj (1999) frequenta il corso di Comunicazione e Società dell'Università Statale di Milano. Si interessa di self-care, nuovi media, arti e letterature.


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