Contro l'economia

David Graeber

29 maggio 2024


Occupy Wall Street © Boris D. Leak, 2011.



C’è la sensazione crescente, tra coloro che hanno ruoli di responsabilità nel gestire grandi sistemi economici, che la disciplina dell’economia non sia più di grande aiuto. Infatti, appare sempre di più come una scienza pensata per risolvere problemi che ormai non esistono più da tempo.


L’ossessione con l’inflazione ne è un buon esempio. Nei corsi di economia si insegna ancora che il ruolo primario del governo – e una larga maggioranza aggiungerebbe che si tratta dell’unico ruolo adeguato – è garantire la stabilità dei prezzi. Bisogna vigilare continuamente sui rischi dell’inflazione. L’idea che i governi la affrontino mettendosi semplicemente a stampare moneta, rispetto a quanto detto, è intrinsecamente scellerata. Se, al contrario, l’inflazione viene tenuta a bada dall’azione coordinata del governo e delle banche centrali, il mercato dovrebbe riuscire a trovare il suo “tasso naturale di disoccupazione”, e gli investitori, sfruttando la chiarezza dei segnali di prezzo, dovrebbero essere in grado di garantire una crescita genuina. Queste tesi derivano dal monetarismo degli anni Ottanta, cioè dall’idea che il governo debba limitarsi a gestire la liquidità monetaria1, una teoria che negli anni Novanta arrivò a essere accettata ovunque come un fondamento basilare: tutto il dibattito politico, da lì in avanti, avrebbe dovuto prendere le mosse dalla condanna, ripetuta quasi in modo rituale, dei rischi connessi alla spesa pubblica. Ancora oggi queste idee rimangono dominanti, nonostante le banche centrali, a partire dalla recessione del 2008, abbiano cominciato a stampare freneticamente moneta per creare inflazione e spingere le persone più ricche a usare i loro soldi per fare qualcosa di utile – perlopiù fallendo in entrambi i casi.


Ormai, l’universo economico in cui viviamo non è più quello che ha preceduto il crollo del 2008. Il calo della disoccupazione non produce più un aumento delle retribuzioni. Stampare moneta non alimenta più l’inflazione. Eppure, il linguaggio del dibattito pubblico e le teorie proposte nei manuali di economia sono rimaste sostanzialmente invariate.


In parte, una certa indolenza istituzionale è preventivabile. Gli economisti tradizionali, al giorno d’oggi, non saranno granché bravi a prevedere le crisi finanziarie, sostenere la prosperità globale, o sviluppare modelli per affrontare il cambiamento climatico, ma quando si tratta di affermarsi in posizioni d’autorità intellettuale, nonostante gli evidenti errori commessi, il loro successo è impareggiabile. Per rintracciare qualcosa di simile, bisognerebbe riprendere in mano la storia delle religioni. L’economia, ancora oggi, continua a essere insegnata non come una sequela di dibattiti – cioè, non come una qualsiasi altra scienza sociale, dove si ha a che fare con un coacervo di prospettive teoriche spesso in conflitto tra loro – ma come una disciplina simile alla fisica, che gradualmente porta allo svelamento di verità matematiche universali e incontrovertibili. Le teorie economiche “eterodosse”, ovviamente, esistono (che siano istituzionaliste, marxiste, femministe, “austriache”, post-keynesiane), ma le figure principali di queste correnti sono state quasi ovunque escluse da quelli che sono considerati i dipartimenti accademici “seri”; ci son state vere e proprie ribellioni studentesche (dal movimento post-autistico francese per la riforma degli studi economici2, fino alle prospettive post-recessione emerse in Gran Bretagna) che hanno preteso l’inclusione di tali teorie nei corsi universitari, ma perlopiù si son rivelate fallimentari.


Il risultato è che queste figure dissidenti continuano a essere trattate come se fossero gente ai limiti della follia, nonostante in molti casi abbiano dato prova di saper elaborare migliori previsioni sugli eventi economici del mondo reale. Per di più, le ipotesi psicologiche di base su cui poggia l’economia dominante (neoclassica) – ipotesi che la stessa psicologia ha confutato da tempo – hanno colonizzato anche gli altri settori dell’ambiente accademico, finendo per condizionare profondamente la comprensione comune del mondo.


Questo divario tra dibattito pubblico e realtà economica è particolarmente esasperato in Gran Bretagna, più che altrove; forse è per questo che sembra essere il primo paese in cui qualcosa sta iniziando a rompersi. Durante la bolla economica precedente al crollo c’era la classe dirigente del New Labour di centro-sinistra a guidare il governo; la reazione del popolo alle successive elezioni («Buttate fuori quei bastardi») portò a una serie di governi di stampo conservatore che ben presto scoprirono come la retorica dell’austerità – richiamando l’esortazione di Churchill a un sacrificio collettivo per il bene comune – facesse particolarmente presa sull’opinione pubblica britannica, garantendo un ampio consenso popolare per l’introduzione di politiche volte a ridurre quel poco che rimaneva dello stato sociale e redistribuire verticalmente le risorse, verso la fascia più ricca. Come disse Theresa May durante le elezioni lampo del 2017: «Non c’è nessun albero magico dei soldi» – probabilmente l’unica battuta memorabile di una delle campagne più scialbe della storia britannica. Ogniqualvolta ci si è chiesti per quale ragione la Gran Bretagna debba essere l’unico paese dell’Europa occidentale a far pagare le tasse universitarie, o se sia davvero inevitabile avere così tanta gente che dorme per strada, i media hanno continuamente riproposto quella frase.


L’aspetto più eclatante della battuta di Theresa May è che, di fatto, non corrisponde al vero. In Gran Bretagna, come in qualsiasi altra economia sviluppata, è pieno di alberi magici dei soldi: si chiamano “banche”. Dato che il denaro moderno non è altro che una forma di “credito”, le banche possono creare soldi – ed è ciò che fanno – letteralmente dal nulla, semplicemente emettendo prestiti. Praticamente tutto il denaro circolante in Gran Bretagna al giorno d’oggi è generato dalle banche in questo modo. Oltre al fatto che la sfera pubblica è perlopiù ignara di questo fatto, uno degli ultimi sondaggi condotti dal gruppo di ricerca britannico Positive Money ha incredibilmente rivelato come l’85% dei membri del parlamento inglese non abbia la benché minima idea sulle effettive origini del denaro (la maggior parte pensa che venga prodotto dalla Zecca Reale).


Chi si occupa di economia, per ovvie ragioni, non può ignorare del tutto il ruolo delle banche, tuttavia per la maggior parte del XX secolo ci si è limitati a discutere su ciò che effettivamente succede quando una persona richiede un prestito. Una scuola di pensiero sostiene che le banche trasferiscono dalle loro riserve somme già esistenti; un’altra ritiene invece che gli istituti bancari generino nuovo denaro, ma solo sulla base dell’effetto di moltiplicazione fiscale3 (così che si possa continuare a dire che il prestito per la vostra automobile è, in ultima analisi, sostenuto dal fondo pensione di una qualche nonna). Solo una minoranza – perlopiù riconducibile alle teorie eterodosse, come la prospettiva post-keynesiana o la teorie monetaria moderna – porta avanti quella che è chiamata “teoria della creazione del credito bancario”: in poche parole, l’idea è che le banche non fanno altro che agitare una bacchetta magica per far apparire il denaro, confidando nel fatto che anche se dovessero concedere a un cliente un credito da 1 milione di dollari, questi alla fine lo depositerà nuovamente in banca e così facendo, dal punto di vista del sistema complessivo, debiti e crediti si annulleranno a vicenda. Secondo questa teoria, non sono i prestiti a derivare dai depositi, ma sono i depositi stessi a essere il risultato dei prestiti.


L’unica cosa che, a quanto pare, non si era mai pensato di fare era farsi assumere da una banca, così da scoprire ciò che realmente accade quando una persona chiede un prestito. Nel 2014, l’economista tedesco Richard Werner fece esattamente questo e scoprì, per l’appunto, che i funzionari che gestiscono i prestiti non controllano affatto l’effettiva disponibilità di fondi, riserve o quant’altro. Semplicemente, creano denaro dal nulla – o, come preferì dire Werner, lo fanno apparire «dalla polvere di fata».


Il 2014 corrisponde anche all’anno in cui parte dell’Amministrazione Pubblica della Corona, un apparato notoriamente indipendente, decise di averne abbastanza. La questione della creazione di denaro divenne un tema di fortissima contesa. Nel Regno Unito, la stragrande maggioranza di chi si occupava d’economia, persino le figure che stavano su posizioni più tradizionali, aveva ormai da tempo bocciato le politiche di austerità in quanto controproducenti (cosa che, prevedibilmente, non ebbe quasi alcun impatto sul dibattito pubblico). D’altronde, pretendere che l’amministrazione tecnocratica incaricata di gestire il sistema prenda le sue decisioni basandosi su presupposti del tutto falsi rispetto a un tema elementare come la natura del denaro, diventa un po’ come chiedere a un’architetta di svolgere il suo lavoro dando per certo che la radice quadrata di 47 corrisponda al valore di Pi Greco. L’architetta sa benissimo che i palazzi comincerebbero a crollare. E che delle persone morirebbero.


Non molto tempo dopo, la Banca d’Inghilterra (l’equivalente britannico della Federal Reserve, il cui apparato dirigente in materia di economia, non appartenendo formalmente al governo, ha maggiore libertà di pensiero) pubblicò un dettagliato report ufficiale intitolato La creazione di denaro nell’economia moderna, con tanto di video e animazioni, in cui veniva ribadito proprio questo punto: i manuali di economia attuali, e soprattutto l’ortodossia monetarista dominante, sono sbagliati. Sono le prospettive economiche eterodosse a essere nel giusto. Le banche private creano denaro. E pure le banche centrali, come la Banca d’Inghilterra, creano denaro; dunque, chi sostiene il monetarismo è completamente fuori strada quando afferma che la loro unica funzione è regolare la liquidità monetaria. Infatti, le banche centrali non controllano affatto questo aspetto; ciò che principalmente fanno è fissare il tasso di interesse – così da stabilire la percentuale che le banche private possono esigere quando creano denaro. Ne consegue che praticamente tutto il dibattito pubblico su questi temi poggia su false premesse. Giusto per fare un esempio: se quanto affermato dalla Banca d’Inghilterra nel suo report fosse vero, vorrebbe dire che la spesa pubblica del governo britannico non era stata sostenuta da una riallocazione di fondi provenienti dal settore privato; semmai, aveva creato denaro nuovo di zecca che prima non esisteva.


Un’ammissione del genere avrebbe dovuto suscitare un certo scalpore e in effetti, in alcuni ambienti ristretti, fu così. Le banche centrali in Norvegia, Svizzera e Germania dopo poco tempo resero disponibili pubblicazioni simili. In Gran Bretagna, tuttavia, la prima reazione dei media fu semplicemente il silenzio. Il report della Banca d’Inghilterra, da quel che so, non è mai stato menzionato dalla BBC né da qualunque altro canale televisivo. Così, i giornali continuarono a scrivere di economia dando per scontato che il monetarismo era automaticamente corretto. E la classe politica continuò a essere pressata su dove avrebbe trovato i soldi per sostenere le politiche sociali. Sembrava di trovarsi di fronte a una sorta di entente cordiale, tale per cui al management tecnocratico si concedeva di vivere in un universo puramente teorico, mentre la politica e i media proseguivano con la loro esistenza in tutt’altro universo.


Detto ciò, ci sono segnali che questo stato delle cose sia provvisorio. L’Inghilterra – e la Banca d’Inghilterra in particolar modo – si vanta di essere in prima linea nel guidare le tendenze economiche globali. Il monetarismo stesso, negli anni Settanta, riuscì a guadagnarsi il rispetto del mondo intellettuale dopo esser stato sostenuto dagli economisti della Banca d’Inghilterra. A partire da quel momento, venne definitivamente adottato dal regime in ascesa di Thatcher, e solo successivamente dalla presidenza di Ronald Reagan negli Stati Uniti, per poi essere esportato quasi ovunque.


È possibile che uno schema simile si stia riproducendo anche oggi. Nel 2015, un anno dopo la pubblicazione del report della Banca d’Inghilterra, il Partito Laburista ha permesso per la prima volta che la leadership interna venisse scelta tramite un’elezione aperta, e così l’ala sinistra del partito, sotto la guida di Jeremy Corbyn e successivamente del Cancelliere Ombra John McDonnell, ha preso le redini del potere. In quel periodo, la sinistra laburista veniva considerata come una frangia marginale persino più estremista dell’ala del Partito Conservatore che Thatcher rappresentava nel 1975; ma va detto che il Partito Laburista è anche l’unico gruppo politico di rilievo ad essersi mostrato aperto a idee economiche nuove (nonostante i media continuino a dipingerlo come un irriducibile gruppo socialista degli anni Settanta). Mentre quasi tutto l’establishment politico, in questi ultimi anni, ha passato gran parte del suo tempo urlandosi addosso e litigando sulla Brexit, l’ufficio di McDonnell – insieme ai gruppi giovanili di supporto al Partito Laburista – ha organizzato seminari e lanciato proposte politiche sui temi più disparati, dalla settimana lavorativa di quattro giorni al reddito universale di base, passando per la Rivoluzione Industriale Green, fino al “Comunismo di lusso pienamente automatizzato”, invitando diverse figure chiave delle teorie economiche eterodosse a partecipare a una serie di iniziative di educazione pubblica, il cui scopo era trasformare le idee sull’effettivo funzionamento dell’economia. Il Corbynismo ha dovuto fronteggiare un’opposizione a tratti istrionesca da parte di quasi tutti i settori dell’establishment politico; tuttavia, sarebbe poco saggio ignorare la possibilità che sia stato innescato qualcosa di storico.


Un primo segno che qualcosa di storicamente inedito è effettivamente successo è dato dal fatto che chi si occupa di studi economici sta iniziando a leggere il passato sotto una luce diversa. A tal proposito, uno dei libri più importanti pubblicati di recente nel Regno Unito non può che essere Money and Government: The Past and Future of Economics [“Denaro e governo: il presente e il futuro dell’economia”, N.d.T.] di Robert Skidelsky. Di primo acchito, sembrerebbe che il libro provi a spiegare perché l’economia tradizionale si sia resa tremendamente inattendibile negli anni che hanno immediatamente preceduto e seguito la crisi del 2008; in realtà, si tratta di un tentativo di riscrivere la storia della disciplina economica attraverso l’analisi di due aspetti – il denaro e il governo – che la maggior parte degli economisti preferisce evitare.


Skidelsky si trova nella posizione giusta per raccontare questa storia. Egli incarna la tipica figura inglese dell’anticonformista cortese, così radicato nell’establishment da non dubitare mai di non poter dire esattamente ciò che pensa, e le cui idee sono tollerate dal resto dell’apparato dirigente precisamente per questa ragione. Nato in Manciuria, formatosi a Oxford, attualmente professore di economia politica a Warwick, Skidelsky è noto soprattutto come l’autore della biografia definitiva in tre volumi di John Maynard Keynes; negli ultimi trent’anni ha seduto alla Camera dei Lord come Barone di Tilton, affiliato di volta in volta a diversi partiti politici e in qualche caso a nessuno in particolare. Durante i primi anni del governo Blair, faceva parte dei conservatori e svolse persino il ruolo di portavoce dell’opposizione sulle questioni economiche presso la Camera dei Lord; attualmente è un deputato indipendente, ampiamente allineato con la sinistra laburista. Detta altrimenti, è uno che va per la sua strada. E di solito, la sua è una strada interessante. Negli ultimi anni, Skidelsky ha sfruttato la sua posizione all’interno dell’organo legislativo più elitario del mondo per tenere una serie di seminari di alto profilo sulla riforma della disciplina economica; il suo libro, in un certo senso, ne è un primo importante risultato.


Ciò che il suo lavoro rivela è una guerra interminabile tra due ampie prospettive teoriche, in cui a vincere è sempre la stessa fazione – e per ragioni che raramente hanno a che fare con sottigliezze teoriche o maggiori capacità predittive. Il punto cruciale della disputa sembra essere sempre la natura del denaro. È meglio concepirlo come un bene fisico, una materia preziosa utilizzata per facilitare gli scambi, o è meglio vederlo come una forma di credito, un metodo di contabilità o di tracciamento dei debiti – insomma, un costrutto sociale? Si tratta di un dibattito che, bene o male, va avanti ormai da qualche migliaio di anni. Ciò che chiamiamo “denaro” è sempre un misto delle due cose e, come io stesso ho osservato nel mio libro Debito (2011), il centro di gravità tra i due poli tende a oscillare avanti e indietro a seconda delle circostanze. Nel Medioevo, in tutto il continente Euroasiatico le transazioni quotidiane erano normalmente effettuate attraverso la forma del credito, e il denaro era considerato un’astrazione. Fu con l’ascesa degli imperi europei globali, e con il concomitante afflusso di oro e argento saccheggiato nelle Americhe che, tra il XVI e il XVII secolo, le prospettive cambiarono sostanzialmente. Da un punto di vista storico, la percezione che un lingotto sia effettivamente denaro tende a essere un indicatore di periodi di violenza generalizzata, schiavitù di massa e invasioni predatorie – le precise modalità con cui gli imperi spagnolo, portoghese, olandese, francese e britannico si fecero conoscere nella maggior parte del mondo. Come ha osservato Skidelsky, queste nuove concezioni del denaro, fondate sulla disponibilità di lingotti, portarono a un’importante innovazione teorica, che è stata successivamente definita come la “Teoria Quantitativa della Moneta” (che, dato l’amore infinito degli economisti per le abbreviazioni, nei manuali è solitamente indicata con la sigla QTM, cioè “Quantity Theory of Money”).


La tesi della Teoria Quantitativa della Moneta (QTM) fu avanzata per la prima volta da un avvocato francese di nome Jean Bodin, durante un dibattito sulle cause della brusca e destabilizzante inflazione dei prezzi che si verificò subito dopo la conquista iberica delle Americhe. Bodin sosteneva che l’inflazione era un semplice problema di domanda e offerta: l’enorme afflusso di oro e argento dalle colonie spagnole stava riducendo il valore del denaro in Europa. Il principio di base sarebbe senza dubbio sembrato sensato a chiunque avesse un po’ di esperienza nel commercio a quel tempo, ma in realtà si basava su una serie di premesse del tutto false. Innanzitutto, la maggior parte dell’oro e dell’argento estratto dal Messico e dal Peru non finiva affatto in Europa, e tanto meno veniva utilizzato per coniare moneta. Perlopiù veniva trasportato in Cina e in India (per acquistare spezie, seta, calicò e altri “lussi orientali”) e se in qualche modo ebbe effetti inflazionistici in patria, le ragioni andavano ricercate in qualche tipo di legame speculativo. Questo è ciò che accade quasi sempre quando si applica la QTM: sembra auto-evidente, ma solo se si tralascia la maggior parte dei fattori critici.


Nel caso dell’inflazione dei prezzi del XVI secolo, ad esempio, una volta che si prendono in considerazione le dinamiche di credito, accumulazione e speculazione – per non parlare dell’aumento delle attività economiche, degli investimenti in nuove tecnologie e dei livelli salariali (che, a loro volta, dipendono dal potere relativo di lavoratori e titolari, creditori e debitori) – diviene impossibile affermare con certezza quale sia stato il fattore decisivo: cioè, se sia stata la disponibilità monetaria a determinare i prezzi o, viceversa, se siano stati i prezzi a determinare la disponibilità monetaria. In termini tecnici, si tratta di scegliere tra quelle che sono definite teorie monetarie esogene o endogene. Il denaro dovrebbe essere considerato un fattore esterno, come tutti quei dobloni spagnoli che a quanto pare, ai tempi di Filippo II, circolavano ad Anversa, Dublino e Genova, oppure dovremmo considerarlo primariamente come un prodotto dell’attività economica stessa, estratto, coniato e messo in circolazione, o come più spesso accadeva, creato nei termini di strumenti creditizi come i prestiti, affinché fosse possibile soddisfare una domanda – il che, ovviamente, significherebbe che le radici dell’inflazione vanno ricercate altrove?


Parliamoci chiaro: la QTM è evidentemente sbagliata. Raddoppiare la quantità di oro disponibile in un paese non produrrà alcun effetto sul prezzo del formaggio, specialmente se l’oro viene dato a persone ricche che lo nascondono nel loro giardino o lo usano per costruirsi sottomarini dorati (questo, tra l’altro, è il motivo per cui nemmeno il quantitative easing, cioè la strategia di acquisto di obbligazioni statali a lungo termine per mettere nuovo denaro in circolazione, ha funzionato). Ciò che conta davvero è la spesa.


Ciononostante, dai tempi di Bodin a oggi, in quasi tutte le occasioni in cui c’è stato un dibattito politico di rilievo, coloro che sostenevano la QTM hanno trionfato. In Inghilterra, tale schema si è imposto a partire dal 1696, subito dopo la creazione della Banca d’Inghilterra, nel contesto di una disputa sull’inflazione in tempo di guerra tra il Segretario del Tesoro William Lowndes, Sir Isaac Newton (allora Direttore della Zecca) e il filosofo John Locke. Newton si era trovato d’accordo con il Segretario del Tesoro sul fatto che le monete d’argento dovevano essere ufficialmente svalutate così da prevenire un collasso deflazionario4; Locke assunse una posizione monetarista estrema, sostenendo che il governo si sarebbe dovuto limitare a garantire il valore della proprietà (monete incluse) anziché ritoccarlo, per evitare di confondere gli investitori o defraudare i creditori. Fu Locke a vincere. Il risultato? Un collasso deflazionario. La brusca riduzione dell’offerta di moneta suscitò un’improvvisa contrazione economica che face perdere il lavoro a centinaia di migliaia di persone, creando povertà di massa, disordini e carestie. Il governo cercò di stemperare velocemente tale indirizzo politico (dapprima concedendo alle banche di monetizzare i debiti di guerra dello Stato sotto forma di banconote, e in seguito abbandonando del tutto lo standard dell’argento), tuttavia, nella sua retorica ufficiale, l’ideologia Lockiana del “piccolo governo”5, del monetarismo spinto e del sostegno ai creditori divenne il fondamento di tutto il dibattito politico successivo.


Secondo Skidelsky, questo schema si sarebbe ripetuto continuamente, nel 1797, negli anni Quaranta e Novanta del XVIII secolo, e infine tra gli anni Settanta e Ottanta del XX secolo, quando Thatcher e Reagan adottarono (anche se per poco tempo) il monetarismo. La sequenza degli eventi è sempre la stessa:


1. Il governo adotta per principio delle politiche monetariste spinte.

2. L’impatto è disastroso.

3. Il governo, silenziosamente, abbandona tali politiche.

4. L’economia si riprende.

5. Il dogma purista del monetarismo, nonostante ciò, diventa o si consolida ulteriormente come un principio di senso basilare e universale.


Com’è stato possibile giustificare una serie così clamorosa di fallimenti? In questo caso, dice Skidelsky, gran parte delle colpe vanno imputate al filosofo scozzese David Hume. Hume, oltre a essere uno dei primi sostenitori della QTM, fu anche il primo a introdurre l’idea che le crisi di breve termine – come quella prodotta da Locke –, qualora fossero riuscite a liberare le capacità di auto-regolazione del mercato, avrebbero potuto generare benefici a lungo termine:


Fin dai tempi di Hume, gli economisti hanno distinto tra gli effetti di breve e di lungo periodo dei cambiamenti economici, compresi gli effetti degli interventi politici. La distinzione è servita a proteggere la teoria dell’equilibrio, consentendo di enunciarla in una forma che tenesse un minimo conto della realtà. In economia, il breve termine indica il periodo in cui un mercato (o un’economia di mercato) si discosta temporaneamente dalla sua posizione di equilibrio a lungo termine sotto l’effetto di qualche “shock”, come un pendolo che si allontana temporaneamente da una posizione di riposo. Questa prospettiva suggerisce che i governi dovrebbero lasciare ai mercati il compito di scoprire le loro posizioni di equilibrio naturale. Gli interventi governativi per “correggere” le deviazioni non farebbero altro che aggiungere ulteriori condizioni ingannevoli a quelle originarie.


In tutte le teorie di questo tipo c’è un difetto di natura logica: infatti non è possibile confutarle in alcun modo. L’idea che i mercati, alla fine, troveranno sempre il loro equilibrio può essere messa alla prova solo se si ha disposizione una definizione condivisa del momento che chiamiamo “fine”; tuttavia, per gli economisti, quella definizione significa solo: “Tutto il tempo necessario a raggiungere un punto tale per cui posso dire che l’economia ha ritrovato il suo equilibrio”. (Allo stesso modo, affermazioni come “i barbari alla fine trionfano sempre”, oppure “la verità prevale sempre” non possono essere confutate, poiché concretamente il loro senso è: “Nel momento in cui i barbari vinceranno o la verità prevarrà, dichiarerò conclusa la storia”).


Giunti a questo punto, comunque, tutte le pedine erano al loro posto: l’imposizione di politiche rigidamente monetariste (che favorivano i creditori e le fasce benestanti) poteva essere giustificata come una sorta di “medicina amara” per azzerare i segnali di prezzo, di modo che il mercato potesse tornare a uno stato sano di equilibrio a lungo termine. Nel descrivere come si è arrivati a tutto questo, Skidelsky ci offre un importante approfondimento dell’analisi storica che Karl Polanyi aveva già iniziato a condurre al 1940: questi aveva indagato il modo in cui i mercati nazionali, apparentemente in grado di auto-regolarsi, erano di fatto il risultato di un attento processo di ingegneria sociale. La creazione di politiche statali volte, intenzionalmente, a ispirare ostilità nei confronti del “grande governo” giocò un ruolo rilevante. Skidelsky scrive:


Un’innovazione cruciale fu l’imposta sul reddito, introdotta per la prima volta nel 1814 e rinnovata dal [Primo Ministro Robert] Peel nel 1842. Nel 1911-14, questa tassa era diventata la principale fonte di entrate del governo. L'imposta sul reddito aveva il doppio vantaggio di dare allo Stato britannico una base di introiti sicuri e di allineare gli interessi degli elettori con quelli di un governo di convenienza, poiché solo i contribuenti diretti avevano il diritto di voto... «La probità fiscale», sotto Gladstone, «divenne la nuova moralità».


Del resto, non c’è assolutamente alcuna ragione per cui uno Stato moderno debba finanziarsi principalmente attraverso l’appropriazione di una parte dei guadagni della cittadinanza. Ci sono moltissimi altri modi per farlo. E molti di questi – come le tasse su terreni, sul patrimonio, sul commercio o sui consumi (che possono essere realizzate in modo più o meno progressivo) – sono decisamente più efficienti; al contrario, la creazione di un apparato burocratico in grado di monitorare gli affari privati della popolazione, nella misura richiesta da un sistema di tassazione del reddito, è di per sé enormemente più dispendiosa. Ma qui si rischia di mancare il punto: la tassa sui redditi, infatti, è pensata per essere intrusiva ed esasperante. È fatta appositamente per essere giudicata un po’ ingiusta. Come per gran parte del liberalismo classico (e del neoliberismo contemporaneo), si tratta di un ingegnoso gioco di prestigio politico – un’espansione dello Stato burocratico che al contempo permette a chi detiene la leadership di sostenere, in modo ipocrita, la necessità di un “piccolo governo”.


L’unica eccezione di rilievo, rispetto a questo schema, la si trova a metà del XX secolo, in quella che oggi è ricordata come l’epoca keynesiana. Parliamo di un periodo in cui la classe politica a capo delle democrazie capitaliste, intimorita dalla Rivoluzione Russa e dal prospetto di una rivolta di massa delle rispettive classi proletarie, permise livelli di redistribuzione senza precedenti – che, a loro volta, portarono alla più estesa situazione di benessere materiale della storia umana. La vicenda della Rivoluzione Keynesiana degli anni Trenta e della controrivoluzione degli anni Settanta è stata racconta infinite volte; tuttavia, Skidelsky presenta nel suo libro un’interpretazione inedita del conflitto sottostante.


Keynes stesso era fermamente anticomunista, ma in gran parte lo era perché credeva che il capitalismo avesse maggiori probabilità di sospingere un rapido sviluppo tecnologico, grazie al quale si sarebbe potuto eliminare quasi tutto il lavoro materiale. Egli puntava a una piena occupazione non tanto perché ritenesse che lavorare fosse una cosa giusta, ma perché in realtà desiderava eliminare del tutto questa necessità, prospettando l’immagine di una società in cui la tecnologia avrebbe reso il lavoro umano obsoleto. In altre parole, Keynes partiva dal presupposto che il terreno su cui si muovevano le analisi socio-economiche non sarebbe mai rimasto immobile; l’oggetto di studio di qualsiasi scienza sociale era per sua natura instabile. Non a caso, Max Weber sostenne, per ragioni simili, che non sarebbe mai stato possibile per le scienze sociali arrivare a qualcosa di lontanamente simile alle leggi della fisica, poiché nel momento in cui si fossero raccolte sufficienti informazioni, la società stessa – insieme a quanto si riteneva fosse importante studiare – non sarebbe più stata uguale e i dati sarebbero stati irrilevanti. Gli avversari di Keynes, invece, facevano di tutto per ancorare le loro tesi a un qualche tipo di principio universale.


Non è semplice per chi non è del mestiere capire la vera posta in gioco qui, poiché la questione ha finito per essere trattata come una disputa di natura tecnica tra il ruolo della microeconomia e quello della macroeconomia. Chi si schierava dalla parte di Keynes riteneva che la prima fosse adeguata allo studio comportamentale di singole famiglie o imprese, di cui si analizzavano i tentativi di guadagnare vantaggi sul mercato; bisognava però aggiungere che, nel momento in cui si prendevano in considerazione le economie nazionali, ci si spostava su un piano di complessità completamente diverso, dove intervenivano leggi di tutt’altro tipo. Così come è impossibile dedurre le abitudini riproduttive di un oritteropo dall’analisi delle reazioni chimiche nelle sue cellule, allo stesso modo, gli schemi di scambio, investimento, oppure le fluttuazioni dei tassi di interesse o di occupazione, non potevano essere considerati come un semplice aggregato di tutte le microtransazioni da cui sembravano derivare. Tali schemi possedevano, come si direbbe in filosofia della scienza, “proprietà emergenti”. Ovviamente, era necessario capire il livello micro (così come lo è analizzare le proprietà chimiche che costituiscono l’oritteropo) per arrivare a una qualche possibilità di comprensione del livello macro; ma di per sé, questo non bastava.


I controrivoluzionari, a partire dal vecchio rivale di Keynes, Friedrich Hayek della London School of Economics, e i vari intellettuali che si unirono a quest’ultimo nella Mont Pelerin Society, bersagliarono esattamente questa idea, cioè che le economie nazionali andavano considerate come qualcosa di più della somma delle loro parti. Da un punto di vista politico, osserva Skidelsky, tale atteggiamento era dovuto a una certa ostilità nei confronti dell’idea stessa di Stato (e, in senso più ampio, di un qualsiasi bene collettivo). Secondo la loro prospettiva, le economie nazionali potevano certamente essere ridotte agli effetti aggregati di milioni di decisioni individuali e, di conseguenza, ogni aspetto della macroeconomia doveva essere sistematicamente fondato sul livello micro.


Si trattava di una posizione davvero radicale e una delle ragioni era che tale indirizzo fu adottato proprio nel momento in cui la branca della microeconomia andava trasformandosi profondamente – un cambiamento che era iniziato con la Rivoluzione Marginalista di fine Ottocento6 –, passando da una tecnica di analisi delle decisioni prese dai soggetti operanti sul mercato a una filosofia della vita umana più in generale. La trasformazione avvenne, in modo alquanto sorprendente, facendo leva su una serie di supposizioni che persino gli economisti riconoscevano, senza troppi problemi, come false: supponiamo – questa la loro tesi – che ci siano attori puramente razionali motivati esclusivamente dai propri interessi, i quali sanno esattamente ciò che vogliono, non cambiano mai idea e hanno pieno accesso a tutte le informazioni più importanti sui prezzi. Tale supposizione permise loro di formulare equazioni predittive molto precise sull’esatto comportamento che ci si poteva aspettare dagli individui.


Va da sé che non c’è nulla di male nel creare modelli semplificati. Le scienze che indagano le questioni umane devono procedere in tale maniera, non ci sono dubbi su questo. Tuttavia, una scienza empirica deve poi mettere a confronto quei modelli con ciò che le persone fanno veramente, così da poterli aggiustare al meglio. Questo è esattamente ciò che le scienze economiche non fecero. Al contrario, scoprirono che, rinchiudendo quei modelli all’interno di formule matematiche del tutto incomprensibili alle persone inesperte, sarebbe stato possibile creare un universo in cui nessuno avrebbe potuto confutare le loro tesi. (“Tutti gli attori sociali sono impegnati nella massimizzazione dei loro utili. Cosa sono gli utili? Qualsiasi cosa un attore sociale stia cercando di massimizzare”). Forti delle equazioni matematiche, gli economisti si sentirono in diritto di affermare che l’economia era l’unica branca della teoria sociale a esser giunta al livello di una scienza predittiva (anche se, per la verità, gran parte delle loro previsioni più azzeccate riguardava il comportamento di persone che, a loro volta, si erano formate nell’ambito teorico dell’economia).


Fu così che l’Homo economicus poté invadere il resto del mondo accademico. Intorno agli anni Cinquanta e Sessanta, praticamente tutte le discipline che si occupavano di preparare la classe studentesca a posizioni di potere (scienze politiche, relazioni internazionali, etc.) avevano adottato una qualche variante della “teoria della scelta razionale”, derivata in buona sostanza dalla microeconomia. Tra gli anni Ottanta e Novanta, si arrivò a un punto tale per cui persino le figure a capo di fondazioni artistiche o organizzazioni volontaristiche non sarebbero state considerate pienamente qualificate, se non avessero dimostrato di conoscere, almeno in linea generale, quella particolare “scienza” dell’uomo, il cui presupposto di partenza sosteneva che gli esseri umani erano fondamentalmente egoisti e avidi.


Erano queste, dunque, le “microfondamenta” a cui le figure di spicco della riforma neoclassica volevano che la macroeconomia tornasse. Per riuscirci, approfittarono di alcune innegabili debolezze nelle formulazioni keynesiane, soprattutto della loro incapacità di spiegare la stagnazione economica degli anni Settanta; così, poterono spazzare via quel che rimaneva della sovrastruttura keynesiana per ritornare alle stesse politiche di piccolo governo e monetarismo spinto che avevano dominato il XVIII secolo. Andava ripetendosi uno schema che già conosciamo. Il monetarismo non funzionò; in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, tali politiche furono presto abbandonate. Tuttavia, sul piano ideologico, gli interventi furono così efficaci che persino quando i cosiddetti “neo-keynesiani”, come Joseph Stiglitz o Paul Krugman, riuscirono a riconquistare una posizione dominante nel dibattito sulla macroeconomia, questi si sentirono comunque obbligati a mantenere le nuove “microfondamenta”.


Il problema, come sottolinea Skidelsky, è che se i presupposti di partenza di una teoria sono assurdi, anche replicandoli in mille e più modi saranno destinati a rimanere tali. Per usare le sue parole, decisamente meno raffinate, «premesse strampalate portano a conclusioni folli»:


L’ipotesi del mercato efficiente (EMH, “Efficient Market Hypothesis”), resa popolare da Eugene Fama […] riguarda l’applicazione di aspettative razionali al funzionamento dei mercati finanziari. L’ipotesi delle aspettative razionali (REH, “Rational Expectations Hypothesis”) afferma che gli attori individuali utilizzano nel modo ottimale tutte le informazioni a loro disposizione su economia e politica per adeguare istantaneamente le loro aspettative […] Dunque, per dirla con Fama: «In un mercato efficiente, la competizione tra numerosi partecipanti dotati di raziocinio porta a una situazione in cui […] il prezzo corrente di un titolo sarà indicativo del suo valore intrinseco [corsivo di Skidelsky]».


In altre parole, bisognava far finta che i mercati, per definizione, non potessero sbagliarsi – se negli anni Ottanta, per fare un esempio, il terreno su cui era stato costruito il Palazzo Imperiale di Tokyo possedeva un valore superiore a quello dell’intera città di New York, il motivo era semplice: quello doveva essere il suo valore effettivo. Quando si verificano degli scostamenti, questi sono puramente causali, “stocastici” e dunque imprevedibili, temporanei e, in definitiva, privi di significato. E comunque, ci penserà la schiera degli attori razionali a fare rapida incetta di tutti i possibili titoli sottovalutati. Skidelsky, non senza sarcasmo, puntualizza:


Ci troviamo di fronte a un paradosso. Da un lato, la teoria afferma che non ha alcun senso cercare di fare profitti attraverso la speculazione, poiché il valore delle azioni è sempre quello corretto e le successive variazioni sono imprevedibili. D’altra parte, se gli investitori non cercassero di trarre profitto in qualche modo, il mercato non sarebbe efficiente poiché non subentrerebbe alcun meccanismo di auto-regolazione […] Inoltre, se il valore delle azioni è sempre corretto, va da sé che il mercato non può generare bolle speculative e crisi economiche […] Questa mentalità si è riversata poi nella politica: «I funzionari governativi, a partire da Alan Greenspan [Presidente della Federal Reserve], non volevano far scoppiare la bolla speculativa [del 2008] proprio perché non erano disposti ad ammettere che era una bolla». La EMH (Ipotesi del mercato efficiente) rese l’identificazione delle bolle impossibile, perché di fatto ne escludeva la possibilità a priori.


Sarebbe questa, in fin dei conti, la risposta alla famosa domanda della regina d’Inghilterra, che si chiedeva perché nessuno avesse previsto l’arrivo della crisi economica del 2008.


Giunti a questo punto, abbiamo chiuso il cerchio. A fronte di una situazione terribilmente imbarazzante, le figure che rappresentano l’economia ortodossa hanno dovuto ripiegare sui loro cavalli da battaglia: la politica accademica e il potere istituzionale. Nel Regno Unito, una delle prime mosse della nuova coalizione tra Conservatori e Liberaldemocratici è stata la riforma del sistema scolastico superiore, attraverso la triplicazione delle tasse universitarie e l’istituzione di un regime di prestito studentesco in perfetto stile americano. Il buon senso avrebbe dovuto suggerire che, se il sistema dell’istruzione non presentava problemi (pur con tutti i suoi difetti, il settore universitario britannico era annoverato tra i migliori del mondo), diversamente dal sistema finanziario, che aveva funzionato talmente male da arrivare quasi a distruggere l’economia globale, la cosa migliore da fare sarebbe stata riformare l’ambito finanziario per renderlo più simile a quello dell’istruzione, e non il contrario. Uno sforzo così ostinato per andare nella direzione opposta non può esser stato altro che una mossa ideologica. Si è trattato di un attacco in piena regola all’idea che la conoscenza possa essere intesa come qualcosa di diverso da un prodotto commerciale.


Sono poi seguite altre mosse simili per consolidare il controllo sulla struttura istituzionale. La BBC, un tempo orgogliosamente indipendente, sotto i Tories è diventata sempre più simile a una rete di Stato, proponendo un’attività giornalistica che spesso non ha fatto altro che recitare, quasi parola per parola, le ultime dichiarazioni del partito al governo – dichiarazioni che, perlomeno in materia d’economia, si basavano su quelle stesse teorie che erano appena state screditate. Il dibattito politico, insomma, stava dando per scontato che la solita “medicina amara”, insieme alla “probità fiscale” di Gladstone, fosse l’unica soluzione possibile; in quello stesso momento, la Banca d’Inghilterra ha iniziato a stampare moneta come in preda alla follia per poi, di fatto, distribuire il denaro all’1% più ricco, nel tentativo – fallimentare – di far scattare l’inflazione. I risultati effettivi sono stati, per usare un eufemismo, poco incoraggianti. Persino all’apice della successiva ripresa, nel quinto paese più ricco del mondo, all’incirca una persona su dodici si è trovata a patire la fame, fino a passare interi giorni senza risorse alimentari. Se per “economia” intendiamo l’insieme dei mezzi con cui una popolazione umana risponde ai suoi bisogni materiali, bisogna riconoscere che il sistema economico britannico è sempre più disfunzionale. La classe politica britannica continua, forsennatamente, a spostare l’attenzione su altri argomenti (come la Brexit), ma questi tentativi non possono andare avanti per sempre. Prima o poi, i problemi veri dovranno essere affrontati.


La teoria economica, allo stato attuale, somiglia sempre di più a un capannone pieno di attrezzi rotti. Questo non vuol dire che al suo interno non si trovino intuizioni utili, ma il fatto è che fondamentalmente, per come si presenta, la disciplina è pensata per rispondere ai problemi di un altro secolo. Il problema di come determinare la distribuzione ottimale del lavoro e delle risorse per generare un alto tasso di crescita economica è semplicemente una questione diversa da quella che ci troviamo ad affrontare oggi: vale a dire, come fronteggiare la crescente produttività tecnologica, la diminuzione della domanda reale di lavoro e la necessità di una gestione adeguata dei bisogni assistenziali, evitando al contempo di distruggere la Terra. Tutto questo richiede una scienza diversa. Ma gli ostacoli per compiere questo passo sono proprio le “microfondamenta” dell’economia attuale. Per essere valida, questa nuova scienza dovrà attingere dal sapere accumulato dagli studi femministi, dall’economia comportamentale, dalla psicologia e persino dall’antropologia, così da pervenire a teorie fondate sul comportamento reale delle persone; oppure dovrà far di nuovo suo il concetto dei livelli di complessità emergente – o, più probabilmente, dovrà fare entrambe le cose.


Sul piano intellettuale non sarà facile. Dal punto di vista politico, sarà persino più difficile. Provare a spezzare la presa che l’economia neoclassica ha sulle istituzioni più elevate, ma anche la sua influenza quasi teologica sui media – per non menzionare il modo subdolo con cui è riuscita a plasmare le nostre idee sulle motivazioni che ci muovono e sugli orizzonti delle possibilità umane – può suscitare sconforto. Presumibilmente, servirà una sorta di shock generale. Che cosa di preciso? Un altro collasso come quello del 2008? Un cambiamento politico radicale in uno dei governi di maggior rilievo a livello mondiale? Una ribellione giovanile globale? Qualunque cosa succederà, libri come quello di Skidelsky – anzi, forse proprio questo nello specifico – avranno un ruolo cruciale.



Note:


1 Il monetarismo è una teoria macroeconomica secondo cui la quantità di moneta offerta ha un’influenza a lungo termine solo sul livello generale dei prezzi, senza determinare variazioni effettive nell’economia. Il governo, secondo questa teoria, ha il solo compito di gestire la liquidità monetaria (o aggregati monetari), vale a dire le forme di attività finanziarie con un certo grado di liquidità: banconote e monete, depositi a risparmio, buoni ordinari del tesoro, N.d.T.


2 Il movimento post-autistico francese, anche noto come movimento studentesco per la riforma degli studi economici, è nato in Francia nel 2000 ed è finito sotto i riflettori pubblici grazie a una lettera aperta pubblicata da Le Monde in cui, oltre a esprimere forti critiche agli indirizzi economici neoclassici, si chiedeva un maggiore pluralismo nell’insegnamento delle materie economiche, N.d.T.


3 La versione basilare di quest’idea fu formulata nel 1931 da Richard Kahn, uno studente di John Maynard Keynes. Il moltiplicatore fiscale descrive il rapporto tra la spesa pubblica statale e l’incremento di prodotto interno lordo che può generare. Nel caso specifico, la spesa sostenuta da una banca nel generare un prestito è rapportata ai consumi e all’incremento di profitti che può generare, N.d.T.


4 Con deflazione si indica una riduzione generalizzata del livello dei prezzi che, a causa della flessione dell’attività economica e dell’occupazione, può innescare un aggravamento di una recessione economica.


5 Nella riflessione lockiana, il “piccolo governo” è inteso come una forma governativa che minimizza l’intervento politico nella vita sociale, garantendo la massima autonomia e libertà in campo economico. Al contrario, il “grande governo” è descritto come una struttura burocratica e legislativa molto più pervasiva, in grado di interferire negativamente con i meccanismi del mercato.


6 La Rivoluzione Marginalista segna la nascita della teoria economica neoclassica. Secondo questa scuola di pensiero, il valore di un bene non dipende dal costo oggettivo del lavoro sostenuto per produrlo, bensì dall’utilità o dal valore d’uso soggettivo che il singolo consumatore gli attribuisce.



*Traduzione di Graeber D., 2019 Against Economics, The New York Review, 2019 Issue, a cura di Francesco Danesi della Sala. L'articolo appare su Alea B2: David Graeber, numero speciale della rivista pubblicato a luglio 2023.


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