Assemblare la disabilità

Chiara Montalti / Variazioni

18 luglio 2022


Inside the Asylum © V2osk, Unsplash, 2018.




L’enfasi, insomma, non va posta su ciò che puoi fare per me,

ma piuttosto su ciò che possiamo creare insieme.

—Kelly Fritsch, Intimate Assemblages


Quale quadro interpretativo appare più fertile per analizzare la disabilità? I Disability Studies presentano i limiti di un quadro specifico: il modello medico-individuale. I termini ‘medico’ e ‘individuale’ vengono considerati tanto interrelati da costituire, appunto, un unico modello, che tende ad oscurare la dimensione politica, sociale, culturale ed economica della disabilità. 


Criticando tale modello, non si sconfessa l’accesso a percorsi terapeutici; non è d’altra parte necessariamente il mondo medico a reiterarne i presupposti: questi possono essere rafforzati, per esempio, dalle rappresentazioni mediatiche, dal “management” della disabilità in ambito scolastico, dalle modalità in cui questa esperienza viene decodificata all’interno di un contesto familiare e comunitario. Quando tuttavia la disabilità viene intesa come una realtà d’interesse unicamente medico, si pone attenzione sulle traiettorie di cura e “aggiustamento”, con l’obiettivo di ripristinare tanto un’apparenza quanto una funzionalità considerate “normali”. L’aspirazione alla cura è ritenuta indubbia, laddove la negoziazione con tale possibilità viene invece imbastita in maniera diversificata all’interno di ogni traiettoria di vita. In aggiunta, è particolarmente improduttiva, oltre che illusoria, l’enfasi sulla natura individuale della disabilità. Oltre a depoliticizzarne i contorni, e ad astrarla dal contesto socioculturale di riferimento, questa prospettiva tende a rinforzarne un’interpretazione tragica a livello biografico. La narrazione dominante, secondo cui essa equivale soltanto a perdita, carenza, difetto, sfortuna, rende difficile l’emersione di esperienze neutre o positive. 


Alla disabilità devono essere invece assegnati contorni relazionali: essa non origina semplicemente dai corpi-menti delle persone, bensì anche da uno specifico tessuto socioculturale, da un contesto economico, dalle strutture ambientali e dalle relazioni umane e non umane che contribuiscono a comporre ogni biografia. La disabilità avviene in collisione con l’alterità, non nella limitatezza dei confini individuali. Rappresenta pertanto un assemblaggio, più che la conseguenza di un singolo evento (come un trauma) o del progressivo deterioramento di determinate funzionalità.


Questa prospettiva, tuttavia, appare in opposizione rispetto alla narrazione occidentale moderna prevalente, che prevede invece soggetti situati in una posizione di sovranità e dominazione. Tale narrazione enfatizza infatti un forte distacco tra il soggetto e l’alterità: per esempio, nella prensione dell’ambiente, nell’esperire i fenomeni, nell’entrare in contatto con altri soggetti. La competenza e l’adeguatezza delle persone vengono assunte subordinatamente al fatto che esse dimostrino di essere autonome, razionali, in grado di esprimersi verbalmente, svincolate da ciò che le circonda, con una mobilità e una struttura corporea delimitate e senza necessità di ausili.


L’immagine che ne deriva appare distante dal concetto di disabilità. Spesso la variabilità cognitiva e sensoriale che la contraddistingue è letta in termini negativi, e i corpi disabili vengono percepiti come incontenibili, indisciplinati, fuori controllo. A causa delle modalità in cui fanno esperienza del mondo a livello emotivo, sensoriale, cognitivo, psichico, il mondo interiore delle persone neurodivergenti e con disabilità mentali può apparire incoerente e fratturato1. A una minore indipendenza viene quindi associata l’incapacità di delineare un proprio percorso di vita. 


Le aspettative che presuppongono soggettività indipendenti, in realtà, vengono tradite anche dalle persone non disabili. In diversi gradi, ogni soggetto è sostenuto e trattenuto da una pluralità di rapporti, e su di essi interviene sempre attivamente. Nessuno e nessuna di noi è in grado di agire totalmente in autonomia: le aree e il peso in cui si rende necessario un supporto, tuttavia, possono variare, talvolta approfondendosi (per esempio nei casi di neonati e di alcune persone disabili, malate, anziane). La nostra agency è sempre distribuita: nel caso delle persone non disabili le connessioni rimangono spesso invisibili; in altri casi, invece, i complessi assemblaggi sociali e corporei necessari a sostenere la quotidianità risultano maggiormente evidenti. 


I fenomeni e gli incontri che avvengono appena al di là della pelle, o anche al suo interno, possono farsi perno concettuale per un ripensamento di indipendenza e individualità. Riconoscere la natura relazionale della disabilità spinge a valorizzare e praticare l’interdipendenza. Nelle traiettorie biografiche delle persone disabili può infatti avvicendarsi una concatenazione di “compagnie” e parentele dagli esiti anche sorprendenti e inattesi. Esse includono animali assistivi, relazioni amicali, tecnologie e strumenti, personale assistente, partner, familiari. La costruzione della soggettività non avviene entro le soglie chiuse e “nette” dell’individualità, ma rappresenta piuttosto un’attività collaborativa e trasversale. Questa apertura verso l’alterità si radica anche nella natura parzialmente instabile della corporeità. La lente della disabilità consente di coglierne molteplici sfumature, imponendoci di alleggerire i confini solitamente individuati nei corpi:


«Il corpo – il mio corpo umano – non è mai completo in se stesso e chiuso rispetto all’alterità, ma si trova piuttosto irriducibilmente coinvolto in una rete di connessioni costitutive che disturbano l’idea stessa di essere umano»2.


Col concetto di interdipendenza s’intende una prospettiva mobile, in cui si riconosce la necessità di dipendere da qualcosa non considerato immediatamente come parte del sé individuale – per esempio, una protesi o un cane guida –, ma in cui né la passività né l’autarchia rappresentano la chiave di lettura privilegiata. Può significare che, sebbene la possibilità di raggiungere i propri obiettivi e di svolgere le attività quotidiane vada garantita, sia più produttivo insistere sulla dimensione interrelazionale delle esperienze di disabilità. L’interdipendenza non rappresenta tuttavia una forma di co-esistenza dai contorni fiabeschi: è piuttosto, nota Eli Clare, un «problematico e imperfetto lavoro in corso» – che, oltretutto, è impossibile da rifuggire3


Un caso esemplificativo è rappresentato dalle relazioni di assistenza e cura. Sebbene all’apparenza rientrino nella cornice della dipendenza, esse rappresentano invece una forma di interdipendenza. Tali reti, sempre mobili, vengono investite da sovversioni, intromissioni ed interferenze. Soprattutto, il flusso della cura non è mai unidirezionale: le persone disabili partecipano attivamente anche quando ricevono assistenza. Ogni relazione, retribuita o meno, è infatti costituita da scambi su diversi piani – senza dimenticare tuttavia che talvolta possono emergere sbilanciamenti e dinamiche complesse. Per esempio, chi fornisce assistenza – prevalentemente i membri femminili di una data rete affettiva e sociale ma anche, e quelli non bianchi o di origine straniera4 – può infatti trovarsi a sostenere un carico eccessivo di "lavoro" e godere di pochi benefici a livello sociale ed economico, mentre chi la riceve può subire un processo di infantilizzazione, e sperimentare forme di negligenza e abuso.  


L’attivista e studiosa Loree Erickson basa da decenni la propria necessità di assistenza su reti comunitarie: espone le proprie richieste (per esempio, sui social) ed invita volontari e volontarie a partecipare nei turni proposti. Quando viene assistita, l’organizzazione dei bisogni è intervallata dai suoi consigli sentimentali, dalle battute, dalle conversazioni su vicende personali. La stessa negoziazione dei movimenti e delle attività da svolgere – similmente ad una coreografia di danza – implica il suo coordinamento attivo. I corpi, infatti, devono imparare a lavorare insieme. Nel caso di rapporti di assistenza “informali” e fuori dal mercato – contestualizzati per esempio a livello familiare, affettivo, amicale –, le persone disabili possono valutare quale assistenza richiedere, soppesandola all’interno di ogni specifica relazione. Chiunque partecipi alla cura, inoltre, può entrare in contatto non soltanto con le necessità pratiche delle persone disabili, ma anche con le loro rivendicazioni politiche. Le persone non disabili che assistono possono essere informate sui cambiamenti sociali richiesti dall’attivismo, ed essere rese alleate. Può esserci quindi uno scambio di sapere teorico, politico, pratico, nonché una mobilitazione affettiva. Quando c’è apertura verso l’esterno, si possono certo verificare frizioni e momenti di instabilità; allo stesso tempo, s’inanella una progettualità in cui le persone disabili assumono un ruolo attivo, possono dischiudersi legami arricchenti e ben intessuti. 


In conclusione, la disabilità emerge dall’interdipendenza come un insieme di processi, legami ed eventi, non si presenta come un fenomeno essenzialistico e immutabile che riguarda singole persone avulse dal contesto. Parlare di disabilità (a livello mediatico, narrativo, accademico, personale) significa considerare, oltre alle singole esperienze, intere reti sociali, culturali, affettive – ognuna coi propri processi di dominazione, empowerment, ambiguità. L’apporto culturale delle persone disabili è trasversale: tendono a sfidare le aspettative socioculturali, estetiche e fenomenologiche maggiormente diffuse, che prevedono soggetti autarchici sul piano corporeo, cognitivo, percettivo. Proprio perché la disabilità favorisce pratiche di vita in condivisione, esse sviluppano competenze relazionali peculiari, che dovrebbero auspicabilmente essere messe a valore a livello comunitario.


Infine, la dimensione relazionale della disabilità deve essere sorretta dalla consapevolezza che le persone disabili assumono sempre un ruolo attivo. Questa consapevolezza ha una portata trasformativa a livello etico-politico: è un tassello fondamentale per una forma di giustizia sociale che abbia anche a cuore lo smantellamento del binomio abilismo/disabilismo. Con questo accostamento si identifica tanto il sistema di credenze che marginalizza le persone non considerate sufficientemente “abili”, quanto i processi e gli atti discriminanti che ne conseguono, che ostacolano una loro partecipazione attiva a tutti i livelli (affettivo, sessuale, economico, culturale, sociale). Come afferma il ballerino Neil Marcus, infatti, «la disabilità» è anche «un’arte»5. Ciò significa che pur subendo processi disabilitanti, e pur esperendo la disabilità all’interno di una pluralità di rapporti, le persone disabili vi applicano deviazioni, partecipando alla sua fabbricazione.



Note:


1 Il termine ombrello ‘mentale’ ricomprende le disabilità psichiatriche e quelle cognitive: viene talvolta impiegato nella dimensione dell’attivismo e nell’apparato teorico dei Disability Studies, mentre non ha una specifica delimitazione diagnostica.


2 Shildrick M., Bodily Integrity, p. 13, traduzione dell’autrice.


3 Clare E., Brilliant Impefection, p. 136, traduzione dell’autrice.


4 Impiego "non bianchi" per rimandare alle persone che, nei paesi anglofoni, vengono identificate come BIPOC (Black, Indigenuous, People of Color) e BAME (Black, Asian, and Ninority Ethnic). Per alcuni dati sulla disparità relativa alla razza e alla nazionalità nell’ambito dell’assistenza cfr. Campbell S., Racial Disparities in the Direct Care Workforce; Hartmann H. et al., The Shifting Supply and Demand of Care Work; Istituto Nazionale Previdenza Sociale (INPS), Anno 2021: Lavoratori domestici.


5 Marcus N. citato in Siebers T., Levin M., The Art of Disability.



*Chiara Montalti si è laureata in Scienze Filosofiche all'Università di Bologna. Attualmente è dottoranda di ricerca in Filosofia presso le Università di Firenze e di Pisa. La sua tesi di dottorato è incentrata sulle intersezioni tra Disability Studies, il postumanesimo filosofico e i tecnofemminismi.


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