Afobakadam: storia innaturale di una diga
Francesco Cositore / Variazioni
08 settembre 2021
«La diga non è stata pianificata con sufficiente attenzione agli impatti sociali e ambientali […]. Per garantire l’illuminazione nella capitale e nel ricco nord, il governo non ha tenuto completamente conto dell’impatto sulle popolazioni tribali che vivono da millenni lungo l’Omo»1: sono queste le parole con cui nel 2018 Rudo Sanyanga, direttore per l’Africa di International Rivers, presentava Gibe III, mastodontica diga sull’Omo. Musica e parole che però resterebbero praticamente identiche se dall’Etiopia ci spostassimo in Suriname, lungo il corso del fiume che dà il nome al paese. Qui la capitale non si chiama Addis Abeba ma Paramaribo, il ricco nord si affaccia sull’Atlantico e la diga prende il nome di Afobaka. Per il resto, le differenze sono davvero minime. Ma andiamo con ordine.
Il Suriname è schiacciato tra l’Atlantico a nord e il Brasile a sud, e deve il suo nome all’omonimo fiume che nasce nelle foreste dello spopolato Distretto del Sipaliwini e che, dopo circa 480 km, sfocia con un estuario presso Paramaribo. Più o meno a metà del suo percorso, il Suriname si getta in un vasto lago artificiale, il quale, formatosi proprio grazie alla diga che ha sbarrato il corso del fiume, oggi occupa circa l’1% di tutto il territorio surinamese. Le motivazioni alla base di quest’opera vanno ricercate negli accordi firmati lunedì 27 gennaio 1958 tra il governo surinamese e la Suralco, una joint venture tra Alumina Ltd e (soprattutto) la statunitense Alcoa, potentissima multinazionale del settore dell’alluminio. Passati alla storia come Accordi di Brokopondo – dal toponimo della città che dà il nome anche al lago –, con essi la Suralco ottenne il permesso di costruire una diga in prossimità di siti di estrazione di bauxite, il minerale da cui si ricava l’alluminio. All’epoca il Suriname era ancora una nazione costitutiva del Regno dei Paesi Bassi e dunque dotata di ampie autonomie, per cui il governo olandese non aveva il potere (né l’interesse) di opporsi alla realizzazione della diga. Realizzata tra il 1961 e il 1964, la diga di Afobaka (dal nome del piccolo villaggio che sorge nelle sue vicinanze) è una gravity dam alta 54 metri e lunga quasi 2 km, per una capacità elettrica di 180MW. Entrata subito in funzione, l’energia prodotta era destinata prevalentemente agli impianti della Suralco, mentre una minima parte sarebbe servita a soddisfare i bisogni degli abitanti di Paramaribo.
Diga in costruzione per la centrale idroelettrica di Afobaka, 17 agosto 1963 © Tropenmuseum Royal Tropical Institute.
Da allora, la diga di Afobaka ha visto crescere sempre più la propria importanza rispetto ai fragili equilibri del piccolo paese sudamericano, che nel 1975, nel frattempo, ottiene l’indipendenza. Questo fatto si è manifestato in tutta la sua drammatica verità durante l’ultimo governo del più che controverso Dési Bouterse, a capo dell’esecutivo per due mandati consecutivi dal 2010 al 2020, anno in cui è stato sconfitto da Chan Santokhi. L’ultimo mandato di Bouterse si aprì sotto la luce di una cattiva stella: proprio in quel periodo, infatti, Suralco fu costretta a cessare le proprie attività a causa delle ingenti perdite finanziarie, passando la gestione della diga di Afobaka e del relativo impianto idroelettrico direttamente ad Alcoa, la quale, però, non aveva più alcun reale interesse nel paese, visto l’esaurimento delle miniere di bauxite economicamente convenienti. Intuite le intenzioni dell’azienda statunitense, il governo Bouterse non si fece trovare impreparato e lanciò un’intensa campagna propagandistica per «restituire la diga ai surinamesi». Si arrivò così, il 31 luglio 2018, ad un nuovo accordo, che superò quelli del 1958: la gestione della diga e dell’impianto idroelettrico sarebbero passati alla Staatsolie, compagnia petrolifera di proprietà statale, allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre 2019. Il governo gridò al successo, ma il paese la pensava diversamente. Le opposizioni e i cittadini reagirono furiosamente alla firma dei nuovi accordi, ritenendoli eccessivamente favorevoli ad Alcoa, riuscita a lasciare il Suriname senza rendere conto dei danni effettuati con le sue attività.