Riflessioni pedonali dalla città furiosa

Caterina Morbiato / Variazioni

01 ottobre 2021

«Quello che mi manca di più di Città del Messico è passeggiare. A San Salvador non lo posso fare» mi disse qualche anno fa Oscar, un amico salvadoregno che tempo addietro aveva vissuto nella capitale messicana per un lungo periodo. Scandiva tali parole con un pizzico di invidia e una gran malinconia, mentre passeggiavamo nel Zócalo, la piazza principale di Città del Messico, che in quell’occasione era affollata dalle bancarelle del festival annuale dei libri. Oscar avrebbe partecipato a un dibattito sulla migrazione centroamericana e si sarebbe poi fermato qualche giorno in più per godersi la città. Avanzavamo lentissimi, come se ogni singolo passo necessitasse di una forza immane per potersi poi perpetuare in un altro tempo, un altro spazio. Ricordo di avergli sorriso, cercando di decifrare cosa volesse dire. In realtà non ci riuscivo.


Mesi dopo, nell’autunno del 2015, mi trasferii a San Salvador, la capitale de El Salvador, per condurre una ricerca etnografica. Col passare del tempo la questione del camminare divenne un’ossessione. Amici e conoscenti non facevano altro che scoraggiare il mio “impeto pedonale”, ripetendomi quotidianamente frasi come: «È troppo pericoloso!», «Le strade sono deserte: è meglio se prendi un taxi», «Non dovresti uscire quando è già buio» o ancora «In centro è meglio non metterci piede!». Le notizie trasmesse in tv non aiutavano affatto: la città veniva rappresentata come un campo minato, pieno di pericoli e minacce. All’improvviso un’azione che mi era sempre sembrata semplice e quotidiana si era trasformata in una specie di sfida. A San Salvador non potevo camminare quasi mai. E chiaramente iniziai a sentirne una mancanza terribile.


Prima di andarci a vivere, la mia idea di San Salvador era quella di una “città violenta”. Capitale di un paese che per anni ha mantenuto il primato latino-americano per numero di omicidi, San Salvador – detta anche Sívar – non poteva essere altro che una baraonda di morte, sangue, rapine a mano armata e manipoli di mareros1 seminudi e tatuati, ammucchiati nei pick-up della polizia come bestie minacciose. Quello che non mi aspettavo era di trovare una città colpita da un’aggressiva privatizzazione dello spazio pubblico e caratterizzata dalla dilagante presenza di negozi in franchising, centri commerciali e muri altissimi, protetti da filo spinato, cocci di vetro, videocamere e vigilanza privata – dispositivi che erigono barriere, sia reali che simboliche. La topografia della città, in effetti, si sviluppa lungo le linee dell’insicurezza e della sfiducia, e i cittadini finiscono per diventare semplici utenti di uno spazio urbano murato e atomizzato. Non mi aspettavo di trovare una città in cui camminare è un’azione poco praticata, e non solo a causa del caldo spietato che per la maggior parte dei giorni dell’anno pende come una spada di Damocle sulla testa dei suoi abitanti: a San Salvador non si può camminare perché la violenza domina strade, corpi, idee e politiche.



Tramonto su San Salvador © Benkrut, 2018, iStock.



Sebbene la guerra civile sia formalmente finita nel 1992, i processi di pacificazione non hanno puntato a ricostruire San Salvador come un luogo accogliente per la maggior parte dei suoi abitanti. Come ha osservato l’architetta salvadoregna Vanessa Figueroa, le politiche repressive attuate nel dopoguerra2 hanno continuano a prosperare nella giovane democrazia salvadoregna, impedendo alla gente di valorizzare (o anche solo immaginare) una prospettiva in cui lo spazio pubblico venga considerato – e progettato – come un terreno di incontro con l’altro. A San Salvador, insiste Figueroa, la gente non ha modo né tempo per chiedersi se parchi, piazze e strade accessibili siano essenziali per migliorare la qualità della vita nei quartieri in cui vivono: «Non abbiamo occasioni per sognare che tutto cambierà e che avremo una vita diversa»3, sottolinea. Sandra Poizat, anch’essa architetta salvadoregna, definisce la capitale centroamericana come la «Città della furia»4: uno spazio martoriato dalla violenza, dalla paura e dall’indifferenza; una realtà in cui la furia non deriva solo dalle varie forme di criminalità, ma anche dalla tendenza ormai cronica a barricarsi, quando è possibile, in piccole bolle sicure – la casa, il lavoro, la scuola, il centro commerciale, la chiesa. Questa chiusura alimenta ulteriormente la violenza, trasformando il resto della città in uno spazio confuso, un insieme di luoghi che non hanno più un significato collettivo e condiviso dalla popolazione.


Camminare è un’azione semplice che costruisce mondi. Camminando tracciamo mappe intime del territorio che attraversiamo e che ci attraversa. Lo colmiamo di significati e di storie. Camminando possiamo conoscere la città in cui viviamo, calarci nelle sue viscere, uscire dalla nostra zona di comfort ed esporci all’incontro con ciò che è altro, diverso, imprevisto. A San Salvador, tuttavia, è nei centri commerciali che si va a camminare: oasi di sicurezza e di sollievo che però replicano, amplificandola, la netta divisione che esiste in gran parte della città tra spazio pubblico e privato. Una cesura brusca, fatta di muri, filo spinato, telecamere, recinti, sbarre e guardie armate che determinano una differenza tangibile tra uno spazio interno (idealmente) protetto e uno spazio esterno (generalmente) minaccioso e incerto.



Guardia di sicurezza nei pressi della catena di fast-food Mr. Donut © Cnicbc, 2016, iStock.



Non è un caso se, in un’intervista apparsa su Forbes nel 2016, l’imprenditore salvadoregno Fernando Poma – direttore del Grupo Poma, società proprietaria di Metrocentro, la più grande catena di centri commerciali dell’America Centrale – menziona l’insicurezza tra i fattori che hanno determinato il successo della sua azienda, in particolare nel settore alberghiero. La violenza che caratterizza alcuni paesi della regione, incluso il Messico, ha favorito, secondo Poma, il progetto “The Place to Be”: la trasformazione di diversi hotel del Grupo Poma in centri d’affari e di intrattenimento dotati di ristoranti, bar, piscine e spa. Luoghi in cui gli ospiti, circondati da ogni servizio possibile, avrebbero potuto trascorrere lunghe ore senza la necessità di spostarsi verso altre zone della città.


Michel de Certeau, antropologo francese, scriveva ne L’invenzione del quotidiano che la vitalità dello spazio urbano è plasmata dall’azione quotidiana e imprevedibile del camminare. La massa corporea dei pedoni – definiti da de Certeau Wandersmänner, “vagabondi” o “passanti” – dà vita a un testo urbano che, in ogni caso, non può essere immediatamente letto e compreso; spontaneamente, come in un corpo a corpo amoroso, coloro che si spostano a piedi nutrono l’eterogeneità vitale che compone quotidianamente la città: quella matassa di fibre che intessono la sua storia ogni giorno, in modo diverso, senza sosta. È a partire dai passi di chi cammina – passi infiniti, indisciplinati, imprevedibili – che diventa possibile conoscere la realtà urbana e infrangere le regole di un sistema urbanistico che vorrebbe controllarne e limitarne la pluralità.


Non ho mai passato così tanto tempo nei centri commerciali come quando ho vissuto a San Salvador: nonostante il disagio che mi provocavano, per mesi questi spazi hanno costituito il riferimento obbligato e quasi quotidiano dei miei movimenti. Ci andavo per i miei acquisti: vestiti, scarpe, carne, yogurt, shampoo, medicine, vino. Ci andavo quando avevo bisogno di fare un prelievo al bancomat o per comprare il pane che mi piaceva di più. Per vedere un film, un documentario o uno spettacolo teatrale andavo al centro commerciale; se volevo un libro appena pubblicato, sapevo dove trovarlo: nelle librerie di un centro commerciale. Mi è anche capitato di fare cose per me inimmaginabili, come mangiare nei food court, enormi “cortili gastronomici” al cui interno si trovano i tavoli per mangiare e tutto intorno un’infinità di stand – generalmente di famose catene di fast-food — che vendono cibi di vario tipo. A San Salvador i centri commerciali erano diventati capisaldi fondamentali della mia personale mappa psicologica e affettiva della città; sebbene non fossero i miei unici punti di riferimento, arrivai a percepirne l’onnipresenza con un profondo senso di asfissia. Per me, "camminare la città" è un modo di abitarla e a San Salvador ho comunque cercato di farlo il più possibile. In ogni caso, ero convinta che per conoscere e abitare realmente San Salvador non potevo smettere di camminare. Così, cercai di farlo il più possibile, percorrendo a piedi i diversi luoghi della città. La mia meta preferita era il centro storico, la parte della città che mi sembrava più viva perché scandalosa, disordinata e ancora imbevuta di storia. Una zona che pulsava di attività politiche, economiche, religiose, culturali e criminali. Labirinto di negozi, corpi e grida di venditori ambulanti che offrivano mercanzie impanate di fuliggine e arroventate dal sole. Ma anche bancarelle che inghiottivano più della metà dei marciapiedi e su cui veniva esposta ogni tipo di cachada5: lampadine stroboscopiche, telecomandi e batterie, formaggi semi-stagionati grattugiati sul momento, yucca a fette, bibite ghiacciate al sapore di cocco, tamarindo, arancia o fiori di ibisco, appositamente imbustate in sacchetti di plastica con cannuccia annessa.



Mercato in una via di San Salvador © Camilo Freedman, 2021, SOPA Images.



Camminando per il centro mi imbattevo nelle venditrici che, accarezzandomi le braccia per due secondi, mi apostrofavano con un «Amore, cosa ti diamo? Cosa ti diamo, amore mio?»; o nei librai di strada che non ne volevano sapere di essere trasferiti in sterili mercati coperti e che ogni settimana avevano qualche nuovo gioiello letterario; o ancora, nella comunità dei senzatetto che aveva il suo fragile dominio in Plaza Libertad, davanti a quell’armoniosa massa di ferro, cemento e vetrate variopinte che è la chiesa de El Rosario, uno degli edifici più seducenti della città. C’erano poi le combriccole di anziani che commentavano il via vai urbano dalle panchine di Plaza Morazán, giusto di fronte al Teatro Nazionale. E ancora: i sordomuti e i metallari, i giovani artisti che improvvisavano gallerie in edifici umidi e decadenti, e i gruppi evangelici che con le loro invocazioni trasformavano la spianata della Cattedrale cittadina in un tempio a cielo aperto. Ognuna di queste micro-comunità rendeva il centro storico molto sensuale. Un luogo che, nelle parole della studiosa salvadoregna Beatriz Cortez, «ha un potenziale nel campo del desiderio che nessuno spazio antisettico potrà sostituire»6.


Nel suo libro Storia del camminare, la scrittrice statunitense Rebecca Solnit racconta che l’origine del tapis roulant si ritrova nel treadmill, un macchinario proprio dell’universo carcerario di inizio Ottocento. Inventata dall’ingegnere William Cubitt, questa macchina fu testata nella Brixton House of Correction, nella periferia di Londra, per disciplinare le menti dei prigionieri. All’epoca il medico James Hardie annotava che era la continuità monotona e non la severità a fare di questo tapis roulant carcerario un congegno del terrore in grado di spezzare anche gli spiriti più ostinati. Hardie aveva avuto modo di studiare le conseguenze di questa macchina disciplinare sui detenuti della prigione in cui lavorava, quella di Bellevue, sull’East River di New York. Molti erano uomini e donne accusati di vagabondaggio: un’azione considerata – a volte ancora oggi – un crimine. Costringerli a camminare su un marchingegno come il treadmill – asserviti alla routine e privati di qualsivoglia imprevisto – non poteva che essere una punizione perfetta: «Nessun incontro con conoscenti o sconosciuti, nessuna vista rivelatoria dietro una svolta. Sul tapis roulant, camminare non è più contemplazione, corteggiamento o esplorazione. È solo il movimento alterno degli arti inferiori», scrive Rebecca Solnit.


San Salvador per me è stata una sorta di personal-treadmill. Forse è per questo che mi emoziono ancora quando ripenso a quell’unica volta in cui l’ho percorsa in bicicletta. Era una domenica, verso l’imbrunire, e dovendo prelevare al bancomat, mi ero recata al centro commerciale più vicino a casa. Di ritorno, le strade semideserte e l’aria tiepida mi avevano fatto venire voglia di imboccare un cammino in salita mai percorso prima: in sella alla bici, più veloce e sicura che a piedi, mi sentivo libera di tuffarmi nell’ignoto. Avevo così scoperto la facciata dipinta di rosa e viola di un centro culturale che annunciava corsi di danza del ventre e una pupusería7 senza insegna dove una signora sedeva pigramente su una delle panche, aspettando i clienti della sera. La strada, sempre più ripida, mi aveva costretto a scendere dalla bici e a proseguire con lentezza: alla mia destra, il muro di un centro per bambini era decorato con disegni di animali: c’erano un tacchino e un avvoltoio che si fissavano torvi. Alla mia sinistra una vasta area non costruita sprofondava nel nulla, invasa da alberi e piante esuberanti. Le macchie di giungla che emergevano con prepotenza nei luoghi più inaspettati di San Salvador – veri e propri vulcani arborei che squarciavano il cemento – mi avevano sempre ipnotizzato e quella visione mi aveva riempito di gioia. Ma anche di amara sorpresa: c’era un burrone vertiginoso proprio dietro casa e non me n'ero mai accorta. In che momento avevo circoscritto tanto i miei passi? Rimasi a contemplare quel paesaggio per diversi minuti. C’era qualcosa di affascinante, enigmatico e provocatorio nell’immagine che avevo di fronte a me. Era come guardarsi allo specchio.



Note:


1 In El Salvador vengono chiamati mareros (ma anche muchachos, bichos, hommies) le persone che appartengono alle cosiddette maras o pandillas, ovvero le gang locali. Le maras sono diventate una realtà critica nella seconda metà degli anni Novanta, quando gli Stati Uniti hanno iniziato a deportare migliaia di salvadoregni senza documenti migratori regolari, la maggior parte arrivati durante gli anni della guerra civile. Tra i deportati c’erano molti membri delle gang che si erano formate a Los Angeles, in California: la Mara Salvatrucha (MS13) e il Barrio 18. Una volta arrivati in El Salvador, i membri delle gang di Los Angeles e di altre città statunitensi si sono mischiati con gruppi criminali locali, dando vita alla struttura delle maras attuali.


2 Di fronte all’aumento del potere delle maras il governo non ha optato per una politica globale incentrata sulla prevenzione del fenomeno, prediligendo invece metodi repressivi. Nel 2003, l’allora presidente Francisco Flores lanciò Mano Dura, un piano che prevedeva operazioni congiunte tra polizia ed esercito, la detenzione di ogni persona sospettata di essere membro di una gang solo in base al suo aspetto fisico e una restrizione delle garanzie procedurali. L’approccio punitivo di Flores è stato abbracciato anche dal suo successore, Antonio Saca, con il piano Súper Mano Dura, attivato nel 2006. Mano Dura e Súper Mano Dura hanno avviato un sistema di persecuzione e punizione che, nel tempo, invece di portare a un effettivo miglioramento del panorama sociale, ha determinato un drammatico aumento della criminalità violenta, dell’emarginazione della popolazione giovanile, del reclutamento da parte delle gang e della popolazione carceraria.


3 Figueroa, V. Espacio público, el espacio vital de la ciudad [traduzione a cura dell'autrice].


4 Poizat Gutiérrez, S. La Ciudad de la Furia.


5 In El Salvador il termine cachada si riferisce a quelle mercanzie che vengono vendute a prezzi molto economici e che di solito si trovano nei mercati o nelle vendite ambulanti informali.


6 Cortez, B. San Salvador, El Salvador,13°70.14N, 89°20.02W.


7 Negozio che vende pupusas, uno dei piatti più tradizionali di El Salvador. Le pupusas, a forma di luna piena, si fanno con un impasto di farina di mais o di riso e vengono farcite con crema di fagioli, formaggio, cotiche fritte o verdure di vario tipo. Vengono servite che ancora scottano, accompagnate da salsa di pomodoro fresca e il cosiddetto curtido: un tritato di cavolo cappuccio, carote, cipolle e origano marinato in aceto.



*Caterina Morbiato è antropologa e giornalista freelance; si occupa di diritti umani, diritti del lavoro, economie digitali e movimenti migratori. Da otto anni vive a Città del Messico, dove ha svolto attività di ricerca etnografica. Ha collaborato con diversi media messicani e italiani, tra cui: il venerdì di Repubblica, Napoli Monitor, Jacobin Italia, Altreconomia e Il Tascabile. Attualmente è corrispondente del quotidiano El Sur dello Stato di Guerrero.


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