Odiare (e amare) in curva

Caterina Capelli

09 gennaio 2023

«È odio mosso da amore» cantavano i 99 Posse nel ‘93, manifestando un sentimento di rabbia tanto forte da confondersi con l’amore, un «calore che ti brucia in petto». Qualche decennio prima, un’altra idea di “odio mosso da amore” era entrata nelle pratiche e nel linguaggio giovanile, portando alla nascita del fenomeno che, alla fine degli anni Sessanta, aveva rivoluzionato il modo di stare allo stadio: il movimento Ultras. Nelle curve d’Italia l’amore per la propria squadra, così come l’odio per i colori avversari, cominciava a esprimersi attraverso coreografie, cori e striscioni, dove i sentimenti andavano radicalizzandosi, manifestandosi in modi sempre più espressivi, creativi, estremi. Chiamato il “dodicesimo uomo”, per l’entusiasmo con cui è capace di contagiare i giocatori e influenzare la performance in campo, questo “supertifo” è tristemente famoso anche per le venature di violenza che l’hanno sempre attraversato. Scontri, incidenti (talvolta fatali), e un linguaggio provocatorio che spesso cade nel hate-speech. Carlo Balestri, studioso di culture giovanili e ideatore dei “Giochi Antirazzisti”, definisce quella ultras un’identità doppia: «Quella della squadra, da sostenere, difendere, celebrare; e quella del gruppo, che ha bisogno di un nemico contro cui scagliarsi: le tifoserie delle altre città».


In fondo a un documento del 1995 – su cui torneremo –, scritto a penna su un foglio A4 a mo’ di manifesto spontaneo, il movimento Ultras si definisce come «un mondo libero e vero pur con tutte le sue contraddizioni». In questo luogo “contraddittorio”, odio e amore vivono l’uno accanto all’altro e fanno scintille: a volte sono quelle delle spettacolari “torciate”, altre volte sanno di bombe carta e guerriglia. Tra la nebbia dei fumogeni e il suono dei tamburi, il 28 ottobre 1979, muore il tifoso laziale Vincenzo Paparelli, a causa di un razzo lanciato dalla curva romanista: è la prima vittima di un tifoso rivale, conseguenza estrema dell’“odio storico” tra le due tifoserie. Il dibattito mediatico che dalla morte di Paparelli ci portiamo dietro ancora oggi ha individuato nelle pratiche aggressive del tifo radicale la responsabilità degli eventi più tragici.



Il capitano laziale Wilson calma i tifosi dopo l’interruzione del derby a causa della morte di Vincenzo Paparelli, 28 ottobre 1979 © Roberto Tedeschi 



In realtà però, quello di Paparelli non è il primo caso di violenza negli stadi. Come sottolinea lo storico ed ex ultras dell’Olympique Marseille Sebastien Louis, già dai primi anni del calcio – tra pistolettate e sassaiole – si moltiplicano gli atti di violenza, quasi sempre legati agli avvenimenti in campo. Louis ricorda che «è del 1920 il primo morto registrato durante una partita di calcio, quando un tifoso del Viareggio viene ammazzato da un carabiniere».


Con la nascita degli ultras, invece, cambia tutto, incluso il conflitto, che si sposta su pratiche rituali e coinvolge l’identità del tifoso anche fuori dallo stadio. I primi gruppi organizzati replicano le azioni, i linguaggi, ma anche la struttura dei movimenti di contestazione che animavano le strade d’Italia in quegli anni: «Tamburi e striscioni vengono anch’essi dalle manifestazioni degli anni Settanta» spiega Balestri.


Secondo lo storico Nicola Sbetti, autore di Giochi Diplomatici, «il grande cambiamento antropologico nella figura del tifoso avviene con la diffusione della televisione, unita agli sforzi economici per trasformare le partite di calcio in uno spettacolo per tutti, borghesia inclusa. Così, da spettatore il tifoso diventa parte dello spettacolo stesso, e approfitta della nuova visibilità per affermare i propri colori e la propria identità». Anche Sebastien Louis riprende questo aspetto nel titolo del suo libro Ultras. Gli altri protagonisti del calcio: «L’ultras ha bisogno di farsi vedere, vuole essere protagonista della partita a modo suo, facendo il più bel tifo, la più bella coreografia, lo striscione più bello... ed essendo il più duro a picchiare» spiega lo storico, che precisa: «La violenza è solo l’1% dell’azione degli ultras, forse meno: la maggior parte rimane violenza simbolica, fatta di striscioni, sfottò, cori, provocazioni. Quando bisogna confrontarsi a pugni sono pochissimi a farlo veramente». 


Nel documentario Rai Le Origini del CUCS – Commando Ultrà Curva Sud, della Roma – vengono mostrate ad alcuni tifosi scritte truci sui muri come “Berremo il vostro sangue”, insulti e minacce di morte: «Se dovessimo dare retta a tutte queste scritte, saremmo dovuti essere morti da un bel pezzo» rispondono questi. Dove si colloca allora il confine tra la violenza simbolica e quella reale?


È stato il sociologo Alessandro Dal Lago a cercare di capirci qualcosa invitando – nel suo saggio Descrizione di una Battaglia – a leggere il tifo organizzato sotto la metafora della guerra, rappresentata in modo rituale durante le partite. Prima del fischio d’inizio, durante l’annuncio delle formazioni, inizia una vera e propria gara dentro la gara, uno scontro rituale tra le due curve, nella cornice dell’incontro sportivo. La traslazione della violenza sul piano simbolico è il modo con cui il movimento mantiene viva la propria identità conflittuale, controllandone istinti e pulsioni all’interno di un recinto espressivo codificato, anche quando riguarda lo scontro fisico. Carlo Balestri ricorda una conversazione con un capo ultras bergamasco, che gli avrebbe detto: «Quando arrivano i genoani, per me è un momento caldo perché li voglio picchiare, ma li picchio perché li rispetto. Voglio fare violenza con loro».



Un’immagine storica del Commando Ultra Curva Sud (CUCS) © Facebook: CUCS - Il cuore degli ultrà 



Il comportamento violento non è solo parte di un codice ma anche uno strumento per incidere il proprio nome: nel ‘95 muore a Genova Vincenzo Spagnolo, accoltellato da un ultras milanista che dirà di aver preso parte allo scontro per dare prova di coraggio e conquistare una posizione rispettata nel gruppo. Dopo la morte di Spagnolo, però, accade un fatto nuovo: rappresentanti di quasi tutte le tifoserie si riuniscono per sottoscrivere un documento, Basta lame basta infami1, con lo scopo di regolamentare la violenza negli scontri. L’odio viene sospeso e ci si incontra su un terreno comune: pur di continuare a combattersi, le tifoserie sono disposte a mettere da parte le reciproche ostilità, e sancire un accordo che garantisca lunga vita alla lotta: «Perché nel ‘95, dopo l’omicidio di Spagnolo, non si è deciso di farla finita con la violenza, e impostare un movimento solo di folklore? Perché la violenza, come dice il documento, fa parte per gli ultras della loro natura. Potrebbe sembrare strano, ma si tratta di un confronto rispettoso, dove ci sono sempre state delle regole» afferma Louis.


L’odio per i rivali – in tutte le sue sfumature, dall’antipatia, all’ira, al disprezzo – lo esprimono soprattutto le parole impresse su graffiti, cori, striscioni che, tra minacce e sfottò, includono anche incitamento alla violenza e alla discriminazione. Il motto definitivo e pluricitato “Noi odiamo tutti” esposto dalla curva veronese negli anni Ottanta, chiarisce il senso del messaggio ultras: siamo “noi” contro “gli altri”. «Nel movimento ultras», spiega Sbetti, «l’aspetto noi-loro rimane intrinseco. Però nello sport non hai un nemico, hai un avversario, che è anche la persona di cui hai bisogno per fare sport: un aspetto “cooperativo” che non viene preso in considerazione». Aggiunge che lo sport, dopotutto, è nato proprio con una funzione di controllo degli istinti violenti: «Il calcio è un’evoluzione delle grandi battaglie. Nel Medioevo, la guerra e la preparazione alla guerra si trasformano nei tornei, nei combattimenti con armi cortesi e caroselli. Il popolo si dedica ad altri giochi, si fabbricano palle o ci si organizza per prendersi a pugni. Era un modo di sfogare la violenza insita nella società, rendendola più controllabile. Anche lo sport nasce così».


Per via delle sue origini popolari, il calcio assume presto la forma di un “fatto sociale totale” – come lo definisce Dal Lago, riprendendo la definizione dell’antropologo Marcel Mauss – in cui il semplice assistere a una partita integra un attore in un groviglio di realtà sociali, economiche, simboliche, ludiche e perfino politiche. Sistematizzando l’odio verso gli avversari con simboli e linguaggi creativi propri, il movimento Ultras è stato capace di creare un orizzonte di verità condivisa, in cui l’identità di un “noi” è costantemente – e ritualmente – costruita e riaffermata in contrapposizione all’altro. È quello che lo scrittore Elias Canetti definirebbe un rituale di opposizione: «Per la massa la più sicura e spesso la sola possibilità di conservazione consiste in una seconda massa a cui riferirsi. Può darsi che si affrontino e si misurino nel gioco; può darsi che si minaccino l’un l’altra; ma l’aspetto o l’immagine intensa di una seconda massa non permettono all’altra di disgregarsi»2. Il conflitto con l’altro assume quindi un ruolo essenziale per la sopravvivenza identitaria del gruppo.


Sebastien Louis è convinto che il mondo ultras, senza odio, potrebbe comunque sopravvivere «perché l’ultras è innanzitutto mosso dall’amore. La gente che si avvicina a questo mondo non lo fa per gli scontri – anche se c’è una minoranza a cui questo piace – ma per amore della propria squadra, dei colori, della città, del gruppo. È questo che spinge i ragazzi a fare migliaia di chilometri per seguire la propria squadra».


In Italia oggi il movimento è indebolito rispetto al passato: una popolazione invecchiata e una società sempre più depoliticizzata hanno contribuito a sedarne parzialmente i fuochi. «Se qualcosa può eliminare la violenza, quella è la pay tv» dice Balestri «che però sta anche distruggendo il calcio». Le sue parole fanno eco al testo di Giorno Sacro, rap di denuncia contro il “calcio moderno” che si conclude con una frase ripresa dalle curve di tutta Italia: «A noi del match non ce ne frega un cazzo». Dopotutto, cosa resta del calcio senza l’eccezionale rappresentazione del tifo, che ne giustifica e riafferma l’importanza sugli spalti?


Come un unico corpo ingombrante, all’interno del quale si distinguono numerose identità animate da molti sentimenti, il movimento Ultras cammina nella storia che l’ha prodotto. Come un’anima in pena, spinta da un amore che non si può esprimere se non con infuocate esplosioni, fa rumore, si scontra, inciampa. L’ultras fatica a sopravvivere in una società che, sentendosi «quasi del tutto pacificata» e in controllo delle proprie pulsioni, cerca di “pulire” lo sport dai suoi lati più bruti e selvaggi, liquidandoli come se non gli appartenessero. Fingiamo di non poterci rispecchiare in un fenomeno che, nel bene e nel male, offre invece ancora oggi un modo per comprendere i conflitti che attraversano la cultura occidentale ed europea, «gravida di pulsioni guerresche»3.


Questo articolo è tratto dalla versione cartacea di Alea n. 4 "Odio", pubblicato a settembre 2022.



Note:


1 Il 5 febbraio 1995, in seguito all’omicidio del tifoso genoano Vincenzo Spagnolo da parte di un ultras milanista appartenente alle Brigate Rossonere 2, si riuniscono più di 3000 rappresentanti ultras appartenenti a diverse tifoserie italiane, per sottoscrivere un documento il cui incipit verrà ripreso da numerosi striscioni nelle curve di tutta Italia. Il testo del documento recita: «Domenica Vincenzo Spagnolo un ultrà del Genoa è morto. L’ennesimo assurdo agguato ci fa dire basta. Basta con questi, che ultras non sono, che cercano proprio a spese del mondo ultrà di fare notizia, di diventare grandi ignorando il male fatto (come in questo caso irreparabile). Basta con le infamate di 20 contro 2 o 3 o di molotov e coltelli. “ULTRA’”, alla ripresa del campionato ci aspetta un altro periodo durissimo, la polizia ora ha carta bianca, gli unici davvero che ci rimetteranno saremo noi, che con questi vili comportamenti non abbiamo nulla da spartire. Ora se davvero vivere ultrà è un modo di vivere, tiriamo fuori le palle. Se altre volte ci siamo girati, pensando che in fondo erano problemi altrui, ora gridiamo forte basta. L’alternativa non c’è? Ci troveremo tra poliziotti che aspettano solo di vederci finiti e questi luridi che fregandosene di tutto e di tutti continueranno con i loro agguati dove non serve nemmeno essere coraggiosi. Uniamoci contro chi vuole far morire tutto il mondo ultrà, un mondo libero e vero pur con tutte le sue contraddizioni».

2 Canetti E., Masse e Potere.

3 Dal Lago A., Descrizione di una battaglia: i rituali del calcio.



*Caterina Capelli ha un background nel mondo del design e del prodotto, e dal 2018 si occupa di comunicazione e progetti creativi. Lavora come copywriter ed editor freelance, scrivendo di design, calcio e cibo.


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