La grande liquidazione

Francesco Danesi

17 maggio 2022

Nel 1968 lo scrittore austriaco Thomas Bernhard dava alle stampe la sua quinta pubblicazione, Ungenach, un fulmine letterario che, in pieno stile Bernhardiano – e proprio nell’anno delle contestazioni “contro-culturali” giovanili – raccontava la deflagrazione e l’allontanamento da un mondo destinato alla rovina. Nel caleidoscopio di voci, frammenti e aneddoti che perturbano la narrazione, viene registrata la vicenda dei due fratelli Zoiss, Robert e Karl, ai quali è toccata in eredità l’immensa proprietà fondiaria di Ungenach, nell’Austria settentrionale. Lo stesso luogo dal quale sia Robert che Karl erano fuggiti tempo addietro, lasciandosi alle spalle l’infanzia infelice, l’opprimente universo famigliare e l’incubo di un mondo ripiegato su se stesso. Solo un’illusione. La vita lontano da Ungenach non è nient’altro che la vita in attesa di Ungenach: alla morte del loro tutore, i due fratelli sono chiamati ad affrontare la calamità malata del loro passato, ultima e perentoria sentenza di un distacco mai avvenuto realmente. Ungenach è corpo, pensiero, ossessione, allucinazione, corrosione. Ungenach è l’inizio di tutto e di tutto è la fine naturale. Ungenach è il problema. Ungenach deve essere liquidata – di qui, il lapidario sottotitolo del romanzo: una liquidazione.


Robert e Karl, l’uno più cinico e nichilista, l’altro più fragile e tormentato. Robert e Karl: la beffarda liquidazione della proprietà sotto forma di donazione, il primo, la morte violenta per assassinio in Africa, il secondo. Traiettorie divergenti a partire da uno stesso punto di fuga, l’odiosissima Ungenach. E se nel caso di Robert la dissoluzione è tutta materiale, quasi a voler annientare l’esistenza stessa dell’incubo attraverso un irriverente smembramento notarile, per Karl il tragico epilogo ha il sapore di un’estirpazione interiore definitiva e inevitabile. Eppure, la sensazione è che la doppia liquidazione dei fratelli Zoiss non costituisca affatto il superamento di Ungenach, quanto piuttosto l’ulteriore conferma di una reciprocità inscindibile, inscritta nelle biografie e nei patimenti dei due fratelli, e sancita, paradossalmente, dalla donazione di Robert e dalla morte di Karl.


Il libro, dicevamo, uscì nel 1968. Quasi sicuramente mi sbaglio, ma preferirei non sbarazzarmi così facilmente di questa coincidenza. Quello di Bernhard, infatti, sembrava un monito disilluso alla generazione del Sessantotto, di cui ben comprendeva le ragioni – la volontà di rompere con l’oppressione istituzionale e famigliare –, ma di cui intuiva anche le inevitabili contraddizioni. I legami non si spezzano, la storia non si taglia a colpi di accetta. Il passato non è liquidabile. E anche ammesso che di coincidenza si tratti, a giudicare dal cosiddetto “stato presente delle cose” non sorprende affatto che i lampi letterari di Bernhard, per quanto risolti in una sorta di estinzione inesorabile dei suoi protagonisti, stiano ritrovando il favore del pubblico internazionale. Volendo azzardare – in modo brutale, me ne rendo conto –, l’epoca che viviamo e di cui abbiamo ereditato gli incubi potrebbe essere infatti definita come “la grande liquidazione”.


Termine interessante, “liquidare”. E altrettanto interessanti sono le espressioni a cui si presta: liquidare i danni, liquidare un debito, liquidare una questione. Liquidare una persona, anche. Una mescolanza di significati sociali, economici e simbolici che, per quanto variabili, trovano nell’idea della “conclusione” il loro destino comune. L’imperialismo prima e la globalizzazione poi, con l’affermazione del neoliberismo come paradigma culturale transnazionale, hanno a mio parere tracciato nell’ultimo secolo e mezzo un percorso di progressiva, e certamente disomogenea, liquidazione. Un fenomeno che ha intersecato storie, contesti e dimensioni estremamente complesse, e che ha portato all’annientamento, più o meno marcato, del concetto di reciprocità e interdipendenza. Atto deliberato, conseguenza inattesa, poco importa. Tutto si pensava concluso, messo al suo posto, archiviato: la natura addomesticata, la società amministrata, il mercato regolato, gli individui liberi nelle loro aspirazioni e possibilità. Qualcuno aveva persino decretato la fine della storia, liquidata anch’essa attraverso l’affermazione – tutta ideale, va da sé – delle democrazie capitaliste globali, garanti di un eterno presente di benessere.


I fallimenti della grande liquidazione, inutile dirlo, sono evidenti, anzi tangibili. Cambiamento climatico, crollo dei mercati finanziari, degenerazione delle democrazie occidentali, pandemie, conflitti armati. Un mondo scomposto fino all’unità atomica si è risvegliato come una marea “liquida” e tumultuosa di relazioni e interdipendenze umane e non. Le crisi del nuovo millennio si infrangono su scale sempre più vaste e impensabili, sancendo una reciprocità complessa, indubbiamente caotica, che fatichiamo a concepire e condividere al di fuori degli abituali schemi risolutivi di tipo binario. La recente aggressione militare russa in territorio ucraino non è altro che una voce in più da aggiungere alla lista – insieme all’orribile conta delle morti. La complessità dell’universo politico sovietico si credeva liquidata e normalizzata attraverso l’inclusione nel mercato globale e negli apparati istituzionali sovranazionali. Le regole economiche del paradigma neoliberista, attraverso il bastone delle sanzioni e la carota degli investimenti, avrebbero dovuto disinnescare qualsivoglia detonazione indesiderata. I tre mesi di guerra che hanno preceduto queste poche righe hanno il sapore di un’ennesima e tragica smentita. Non ho la pretesa – e neanche la capacità – di chiarire le logiche di un conflitto che è stato più volte descritto come una follia insensata. È opportuno, però, sottolineare come lo stesso leitmotiv della narrazione mediatica non faccia altro che ribadire la diffusa incapacità di cogliere gradazioni e relazioni della crisi: follia/razionalità, Putin/Zelens’kyj, occidente/oriente, militarizzazione/resa. Le qualità “complesse” del conflitto, dalle implicazioni energetiche alle trame sociopolitiche, passando per le intricate vicende identitarie delle culture locali, sono regolarmente derubricate a contingenze buone per i dibattiti pseudo-intellettuali. La polarizzazione ideologica della responsabilità sembra essere l’incubo ricorrente della grande liquidazione. E d’altra parte, il problema stesso delle interdipendenze, nella loro concretezza quotidiana (l’aumento del prezzo di gas e carburanti, la minore disponibilità di grano, l’accoglienza dei profughi ucraini), è delegato a risoluzioni che, di fatto, non fanno altro che riprodurre gli stessi vizi sistemici da cui è emerso.


Questo terzo numero di Alea, dedicato al tema della “simbiosi”, tratta esplicitamente della reciprocità vibrante e travolgente che anima la contemporaneità, le sue crisi e le sue possibilità alternative. Le pagine che seguono sono una vera e propria sperimentazione che fa della simbiosi uno strumento di amplificazione dei nostri sensi. L’analisi per così dire “aritmetica” del mondo, con la sua scomposizione in somme, fattori e resti – gli arnesi della grande liquidazione –, è qui smantellata da una sensibilità tanto inedita quanto necessaria, che nelle sfumature e nelle contraddizioni della reciprocità trova una lettura alternativa del presente.


Le Ballate antropologiche si aprono con la storia di due sorelle marocchine, Yasmine e Warda, la cui esperienza migratoria, con l’approdo nella città di Torino, è stata segnata da una profonda frattura famigliare: Elisa Muntoni riflette sulle biografie delle due ragazze e, in particolare, sulla figura del jinn – un’entità invisibile e vendicativa della tradizione popolare marocchina –, mostrando come l’intreccio e la simbiosi a tratti parassitaria tra universi culturali distanti risponda all’esigenza di dare un senso al proprio vissuto. Il secondo contributo, a cura di Roberta Fiorino, esplora le antiche e profonde relazioni che legano i gruppi indigeni della Northwest Coast canadese alla foresta pluviale, minacciata dalle distruzioni indiscriminate della silvicoltura industriale; attraverso il punto di vista di artisti-attivisti Kwakwaka’wakw, l’autrice ricostruisce la pluralità di corrispondenze culturali, ecologiche e sociali che il rapporto con la foresta ha generato e che i gruppi indigeni intendono tutelare a ogni costo. Massimo Camnasio ci riporta in Italia, in una valle dell’Appennino emiliano, dove l’incontro tra un’ingegnera ambientale e una contadina ha trovato nelle micorrize – l’unione simbiotica tra funghi e radici – una possibile via alternativa alle pratiche dell’agricoltura industriale: la formazione di nuove reti di collaborazione e innovazione – umane e non – apre così un interrogativo sull’effettiva possibilità di ribaltare i paradigmi vigenti, introducendo una sensibilità inedita all’interno di un contesto produttivo. Il contributo di Michele Granzotto, infine, problematizza le simbiosi urbane e rurali del Kenya contemporaneo, caratterizzate dalla compresenza di elementi apparentemente contraddittori, caotici o spiazzanti: attraverso le sensazioni etnografiche dell’autore, le immagini del villaggio di Ngobit e dei centri urbani circostanti trovano una profondità storica e culturale più ampia, in grado di restituire la complessità delle contaminazioni coloniali prima e della globalizzazione poi.


La Suite speculativa raccoglie due riflessioni pungenti, provocatorie, preziose. La prima, a cura di Marco Armiero, fa della simbiosi una possibile pratica di liberazione e sovversione del presente necro-capitalistico: le molteplici forme di opposizione all’estrattivismo, al razzismo e al patriarcato si tramutano così in alleanze che includono l’umano e il non-umano, stimolando un ripensamento della politica entro relazioni socio-ecologiche più vaste. La seconda, firmata da Roberta Raffaetà, riflette criticamente sul concetto di relazione proprio dell’idea di simbiosi, mostrando «il lato oscuro» di un tema che presta inevitabilmente il fianco a fraintendimenti e ingenuità: il con-vivere è il prodotto di un incontro, sì, ma anche di una necessaria esclusione che passa per il “morire-con”. Perché si affermi una vera propria etica dell’interdipendenza, avverte l’autrice, è fondamentale sviluppare una nuova responsabilità che tenga in considerazione la violenza del vivere.


La digressione visuale della sezione Fantasia, curata da Stefania Zanetti, ospita una serie fotografica di Matteo Bellomo, le cui immagini reinterpretano il rapporto simbiotico tra l’organismo umano e l’universo batterico e microbiologico che ne popola le interiora. La stessa tecnica di produzione e “deperimento” delle immagini – stampate su pasta di zucchero e lasciate ad ammuffire – costituisce per l’autore un interessante strumento di indagine e auto-riflessione sul proprio corpo, di cui è esposta la brulicante vitalità microscopica.


Entriamo così nella sezione degli Arabesque interdisciplinari, dove la biologia corporea stessa costituisce le fondamenta del “Metabolismo” (Shinchintaisha) architettonico di Kishō Kurokawa: Federico Marcomini ripercorre la visione dell’architetto giapponese, che proprio nella simbiosi tra umano e tecnologico aveva trovato un’innovativa progettualità urbana, mostrando d’altra parte le idiosincrasie di un dualismo che ancora oggi suscita reazioni contrastanti. Nel contributo successivo, Nicola Feninno si accosta alla figura di Papa Pio XII – il Pacelli – attraverso la biografia di Suor Pascalina, la celebre “perpetua” del pontefice: un ritratto sorprendente che oltre a svelare l’intreccio simbiotico «di corpi e di vesti, di persone e di ruoli», ci offre una possibilità narrativa inedita, in grado di superare l’assuefazione al solipsismo biografico. Il lavoro di Amalie Elfallah rintraccia altresì le difficili memorie del passato coloniale italiano in Cirenaica, riflettendo sulla stessa pratica di ricerca storica come una possibile modalità di condivisione e compartecipazione: la consultazione dei testi di Alessandro Spina – pseudonimo letterario di Basili Shafik Khouzam – presso un archivio di Modena è il punto di partenza per un dialogo che fa della reciprocità culturale e documentaria uno strumento di consapevolezza collettivo. In ultimo, Sara Paqu Bresciani ci conduce nella periferia est di Francoforte, a Orber Strasse, dove dal 1990 il gruppo sperimentale Antagon Theater Aktion mette in pratica un modello di vita, teatro e cultura in netta contrapposizione con l’identità “imprenditoriale” della città: l’organizzazione del festival Sommerwerft rappresenta così l’apice di una contaminazione spiazzante che traduce gli spazi urbani in veri e propri laboratori creativi, attraverso i quali immaginare un’altra forma di città.


Il numero si chiude con la silloge poetica di Gabriele Barbarino, una raccolta di frammenti in versi che mescola, in modo imprevedibile, sensazioni e immagini estremamente eterogenee, diluite da una sensibilità autoriale unica nel suo genere.


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