Inventario lagunare

Francesco Danesi / Preludio III

06 maggio 2022

«Andiamo a vedere l’acqua». Ogni sera il vecchio pescatore, terminata la cena, si alza da tavola e, sigaretta in bocca, si incammina verso il molo. L’acqua nera della notte è placida e sfiora appena la banchina. Il pescatore se ne sta lì, silenzioso, con lo sguardo basso che sembra affondare nello specchio liquido ai suoi piedi, non dice niente, fuma, e chissà cosa sta pensando mentre fissa l’acqua nera della notte, non dice niente, fuma e basta, chissà cosa vede nell’acqua nera della notte, è sempre la stessa acqua, settant’anni, sempre la stessa acqua, «andiamo a vedere l’acqua», la sigaretta, il silenzio, non dice niente, andare e basta, fumare e basta, vedere l’acqua e basta.


La laguna è oltre la fine del mondo, dicono alcuni, anzi no, si correggono, la laguna è un altro mondo, va’ un po’ a vedere, sai che posto, lo conosci il detto?, e di qua è tutto sarcasmo e dileggi, ma di là c’è la laguna e la strada è una sola. Il labirinto d’acqua e di terra si estende oltre le carcasse industriali delle ultime periferie: campi, canali, incroci, rotonde, e ancora, frazioni, locande, fabbriche, camion. Bisogna percorrerla tutta questa topografia allucinata, percorrerla tutta senza fiatare, senza indugi, senza pensieri, tirare dritti, eludere la follia di un disegno troppo umano, geometrico, regolare, magari scambiare due parole in una vecchia trattoria desolata, l’oste sa qualcosa, lui sì, deve conoscere il segreto di questo dedalo scientifico, ma non resta che tirare dritti, con qualche pensiero, qualche indugio, ma sempre senza fiatare, perché all’orizzonte finisce il mondo e oltre la fine del mondo c’è la laguna.


Cadaveri putrefatti di nutria lungo la carreggiata. È un’invasione, dicono, roditori infami, insistono, scavano tane ovunque, distruggono i campi, sfaldano i canali d’irrigazione, causano incidenti. Ormai non c’è più nulla da fare, si trovano particolarmente bene da queste parti, si riproducono senza sosta, che vuoi che sia qualche carcassa, ne morissero di più, roditori infami. Dall’America del Sud all’Italia sono più di novemila chilometri. Negli anni Venti sembrò una buona idea quella di coprire i colli delle belle signore con le loro pellicce. Ma si sa, le mode passano, le nutrie restano, e che vuoi che sia una bestia spappolata sul ciglio della strada, roditori infami, guarda che invasione.


Tutto un paese si prepara all’immersione. Sfilano all’alba. Furgoni bianchi nel caligo evanescente del mattino, ognuno diretto alla sua imbarcazione. Prima di partire indossano lo scafandro e gli stivali di gomma, uomini, donne, ragazzini, motori che rombano, cenni d’intesa, saluti in dialetto e poi scia nella scia fin dentro la laguna, là dove l’acqua dolce si mescola a quella salata, appena prima dei depositi sabbiosi delle correnti fluviali. Bassa marea, immersi fino ai fianchi, ci si prepara al raccolto: un pesante rastrello a cui è agganciato un gabbiotto con degli ugelli soffianti, munito a sua volta di rete, viene trascinato lungo il fondale, avanti, indietro, e così fin quando non ce n’è abbastanza da risalire sulla barca, per smistare quanto è stato preso. Il vaglio meccanico vibra irrequieto, separando il prodotto di taglia commerciale da quello che deve essere buttato di nuovo in semina. Mani che distribuiscono, soppesano, puliscono, dividono, e poi sacchi rossi pieni fino all’orlo, ceste, nodi, altri sacchi, altre mani, un altro raccolto, e domani un altro ancora, e speriamo che ce ne sia abbastanza, che la temperatura regga, che la mareggiata sia buona, che non ci siano troppe alghe, che non ci siano morie, che qui tutto cambia, una volta era diverso, con questi attrezzi si rovina il fondale, è tutto meccanico, e la risorsa si danneggia, bisogna comprare la semina, speriamo.


Alla fine degli anni Ottanta un giovane biologo provò a coltivare la vongola delle Filippine nella laguna. La vongola verace locale era stata depredata oltre ogni limite negli anni Sessanta: troppo fragile per essere coltivata, troppo scarsa per essere mercificata. Il primo tentativo del giovanotto si risolse in un fallimento netto. Non si arrese. D’altronde la filippina, più versatile e resistente alle alterazioni ambientali, era perfetta. Il secondo tentativo fu un successo clamoroso. Un mondo che finisce per uno che inizia. Non son mica pescatori quelli, dicono gli anziani, mica ci sono stati in mare aperto, cosa vuoi che ne sappiano, la vongola non ha le pinne, caro mio, noi ci facevamo le trentasei ore fuori, qui in due ore hai fatto le vongole e i soldi, altri tempi, caro mio, non son mica pescatori, hai capito?, noi in mare aperto ci si andava. Ruditapes philippinarum, il nome e cognome della rivoluzione. Soldi, macchine sportive, case a due piani, mercato nero, droga. Poi i capricci della natura, altre maree, altri venti, altri equilibri. Un altro mondo che sembra finire e chissà se ce n’è uno che inizia.


«Andiamo a vedere l’acqua», dice il vecchio pescatore. I suoi occhi di piombo precipitano nella marea, sempre più alta, che lambisce la banchina. Se ne sta lì, silenzioso, non dice niente, fuma, e chissà cosa vede nello specchio d’acqua nera ai suoi piedi, tutto taciturno, fuma e basta, perché nei riflessi pallidi della notte vede il becco ricurvo dell’Ibis egiziano, il corpo oblungo dei fenicotteri africani, le chele minacciose del Granchio Blu dell’Atlantico, la danza delle Noci di mare del Mar Nero, e sono settant’anni, ma l’acqua non è mai stata la stessa, e ogni sera è bene ricordarlo, «andiamo a vedere l’acqua», non bisogna dire niente, andare e basta, fumare e basta, ma soprattutto vedere, perché nella laguna oltre la fine del mondo nulla è identico e immutabile, ed è ora di andare a dormire, senti che vento, questa è bora scura, senti che forza, andiamo dentro, che una bora così non l’ho mai sentita.


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