Impronte di gesso

Sara Cappelletti / Variazioni

27 agosto 2021


Édouard Dantan, Un moulage sur nature à l'atelier de sculpture de Saint-Cloud, 1886.



«In una sola volta, furono mescolati sette moggi di gesso e la miscela fu versata su di lui fino a che ne fu ricoperto fino al collo. Il gesso premeva così forte che le sue costole non avevano spazio per espandersi e lasciare che i polmoni continuassero a funzionare, così lui gemette in un sospiro: “Io… io… io… muoio”. Ero terrorizzato, poiché la sua testa era già ricaduta all’indietro: afferrai con i miei aiutanti la parte anteriore dello stampo e con uno sforzo soprannaturale lo spezzai in tre grandi pezzi, e tirai fuori l'uomo, che, quasi morto, giaceva a terra privo di sensi e madido di sudore. Un poco alla volta, lo aiutammo a tornare in sé. E poi, guardando la parte dello stampo che non era stata danneggiata, vidi la cosa più bella del mondo. Il gesso aveva catturato l’impronta della sua figura con tutta la purezza di un guscio, e quando lo unii ai tre pezzi anteriori, apparve il più bel calco mai preso dal vivo, che sfido chiunque nel mondo a eguagliare, senza rischiare – come ho fatto io incoscientemente – di uccidere l’uomo che vorrebbe ricreare nel gesso»1.


La storia dei calchi in gesso “a fior di pelle” è una storia complessa di appropriazione e trasformazione. Di memoria, materia e corpi fragili.


Nell’Ottocento, in Europa, esplode la moda dei calchi. Le dimore del Vecchio Continente si popolano di riproduzioni a grandezza naturale dei monumenti e delle sculture più famose, e di quelle che si vanno scoprendo nei territori coloniali, mentre accademie, studi e musei le collezionano a scopo didattico2. È anche attraverso la raccolta dei calchi che le nazioni europee costruiscono la propria identità, e cercano di affermare la propria presunta superiorità sulle civiltà “altre”3.



Fotografia di Isabel Agnes Cowper della Eastern Cast Court del South Kensington Museum, 1872 © Victoria and Albert Museum, London.



Ma l’ossessione per i calchi non si placa con queste appropriazioni culturali. Inizia un tentativo disperato di impadronirsi della vita stessa, di sfidarla, forse, fissando nel gesso il mondo vegetale e i corpi di animali tramortiti o cloroformizzati4.


Il gesso comincia a colare inarrestabile anche su di noi. I defunti e i loro cari desiderano maschere funerarie realizzate con la tecnica “al vivo”. Le impronte dei volti, delle mani e dei piedi delle celebrità che decidono di reincarnarsi nel gesso vengono donate oppure vendute come souvenir. Negli Stati Uniti, lo scultore Leonard Volk persuade Abraham Lincoln in persona a posare per lui e realizza un calco dal vivo del suo viso e delle sue mani. Mentre in Europa, la contessa di Castiglione, particolarmente attenta al culto della propria immagine, fa realizzare una serie di calchi delle proprie mani e dei propri piedi per farne omaggio ai suoi ammiratori5.



Harriet Hosmer, Clasped Hands of Robert and Elizabeth Barrett Browning, 1853 (calco in bronzo dal calco in gesso).



Alcuni artisti cercano di ricreare con una singola impronta intere figure umane. I modelli respirano a fatica, mentre sopportano il calore crescente, rischiando di restare intrappolati per sempre in quelle colate di gesso.



How to take a life mask, illustrazione tratta dal libro: The craftsman’s handbook di Cennino Cennini, nella traduzione di Daniel Varney Thompson.



Ben presto, la pratica del calco dal vivo inizia a essere guardata con sospetto perché non è arte, né creazione: non è nulla, se non finzione.


Oggi, tutorial e set per realizzare impronte in gesso di parti del corpo umano sono in vendita un po’ ovunque. Esistono attività specializzate nella realizzazione di calchi delle mani dei neonati, o di persone prossime alla morte6.


Il calco in gesso dal vivo ha molto a che fare con il culto della memoria. Ci permette di confrontarci con qualcosa che in quel momento o in quel luogo non è mai stato o non è più.


Che si tratti della mano di una persona famosa, che non avremmo mai potuto sfiorare, oppure di quella di uno dei nostri figli o delle nostre figlie, che ormai non è più così piccola, o ancora di una persona che ci manca terribilmente, e che vorremmo tanto stringere ancora una volta, quello che ci raccontano queste impronte è la storia di una presenza che allo stesso tempo è anche assenza.


Il calco porta con sé un senso di sollievo, perché in qualche misura è riuscito a renderci immortali, a fare che qualcosa di noi non si perdesse. È una sorta di reliquia, perché ha toccato fisicamente la corporeità da cui si è originato, e la porta con sé. Ma allo stesso tempo ci riempie di malinconia per quello che non è. Come scriveva Rodin, «un calco dal vero è la copia più esatta che si possa ottenere, ma è senza vita»7.


Il calco in gesso è un momento di passaggio. È questo che ci ricorda anche Alberto Giacometti, l’artista che modellava l’argilla, per poi farne impronte di gesso e infine ricavarne statue di bronzo. Per lui, tutti questi materiali avevano pari dignità, e la scultura era qualcosa in continuo divenire. Non rinunciava mai alle sue figure “di transizione”, neppure dopo che i calchi erano finiti in fonderia8. Così noi, a fatica, cerchiamo di liberarci dall’ossessione per il fatto che siamo corpi fragili in perenne trasformazione. Cerchiamo l’immortalità, e intanto continuiamo a vivere.



Alberto Giacometti nel suo atelier di Montparnasse a Parigi, fotografato da sua moglie Annette. Archives Fondation Giacometti © Succession Alberto Giacometti (Fondation Giacometti, Paris + ADAGP, Paris) 2019.



«In un piccolo giardino dimenticato ha uno studio che annega nel gesso, e lui ci vive accanto in una sorta di capannone ampio e freddo senza mobili o cibo. I suoi abiti, le sue mani e i suoi capelli, spessi e arruffati, sono ricoperti di gesso»9.



Note:


1 Agli inizi del XIX secolo, il pittore Benjamin Haydon (1786-1846) decide di realizzare il calco dal vivo di un modello di nome Wilson. L’episodio è ricordato dallo stesso Haydon nei suoi diari, Life of Benjamin Robert Haydon (la trad. italiana dell'estratto in esergo è a cura dell'autrice).


2 Il South Kensington Museum di Londra fece costruire uno spazio apposito, con il soffitto alto ben 25 metri, affinché fosse abbastanza ampio da ospitare la riproduzione della colonna di Traiano. Per una breve storia della moda dei calchi in Inghilterra: Plaster figure makers: a short history, pubblicato sul sito della National Portrait Gallery.


3 Per approfondire la questione dei calchi in relazione all’appropriazione coloniale, si veda per esempio: Singh K., Sanchi, In and out of the museum.


4 Basti pensare ai legumi dipinti della Maison Vilmorin, o alle impronte policrome di funghi del Museum d'Histoire Naturelle di Nizza.


5 Lerner J., Experimental Self-portraits in Early French Photography.


6 Ne ha parlato per esempio il New York Times nell’articolo Hands of the Dying Offer a Unique Memorial.


7 Della posizione di Rodin e delle polemiche che il calco dal vero ha suscitato nell’Ottocento, si parla nella presentazione della mostra A fior di pelle. Il calco dal vero nel XIX secolo.


8 Confessava Giacometti a un amico: «Faccio fondere le mie opere, ma è come se fosse una tappa». E spesso si ricorda l’aneddoto del fratello Diego che per esasperazione “rubava” le opere dallo studio mentre Alberto dormiva, per portarle dal fonditore. Un bel ritratto del rapporto tra lo scultore e il gesso: Frangi G., Giacometti, tenerezza del gesso.


9 Così Simone de Beauvoir ricorda Alberto Giacometti in una lettera del 1947, come riportato nell’articolo Giacometti tutto coperto di gesso.



*Sara Cappelletti, dopo un dottorato in Storia, si è tuffata nel mondo dell’editoria e oggi lavora come ricercatrice indipendente, editor e curatrice di contenuti. «Sono sempre a caccia di refusi e storie interessanti. Non mi fermo finché non ho trovato il libro, la parola o l’immagine giusta».



Per sempre indipendenti

La linea editoriale di Alea è e sarà sempre indipendente, provocatoria e indisciplinata. Il nostro budget dipende esclusivamente dalla partecipazione dei lettori e delle lettrici al progetto. Ed è solo a loro che rispondiamo. Devi sapere che il 50% dei nostri costi è interamente dedicato alla retribuzione degli autori e dell’autrici della rivista. È una cifra importante, ma siamo convinti che nel nostro piccolo sia fondamentale valorizzare il lavoro culturale e di ricerca scientifica. Inoltre, è grazie a chi ci sostiene che possiamo mantenere aperto questo spazio, rendendo sempre più accessibile Alea con contenuti e approfondimenti di qualità. Se ti piace quello che stiamo facendo, abbonati alla rivista.

Abbonati ora