Farmacologia di un epilogo

Francesco Danesi della Sala

11 ottobre 2022


L'acropoli di Atene dall'Aeropago, Thomas Hartley Cromek, 1846.



Nell’Antica Atene, in occasione delle feste Targelie, era consuetudine scegliere e allontanare dalla città due uomini, possibilmente ripugnanti nell’aspetto o criminali – o ancora meglio entrambe le cose –, affinché la polis venisse purificata. Stando alle descrizioni dello scrittore ellenistico Istro e del grammatico Ellàdio, i due prescelti venivano adornati l’uno con con fichi neri, l’altro con fichi bianchi intorno al collo, a rappresentare rispettivamente il genere maschile e femminile; seguivano libagioni varie e infine una processione, con la quale i due erano condotti fuori dalle mura cittadine.


Il rituale aveva un chiaro intento propiziatorio e catartico: la festa era infatti celebrata nell’undicesimo mese del calendario attico, il Targelione, a cavallo tra maggio e giugno, quando con il sopraggiungere dell’estate ci si avviava al raccolto del lavoro agricolo. Per scongiurare malanni, carestie e sfortune di vario genere, i timori della collettività si risolvevano, di fatto, in una prescrizione espiatoria individualizzata: la vittima designata prendeva il nome di pharmakos.


Tale figura, pur con declinazioni rituali diversificate, è attestata storicamente come una vera e propria istituzione religiosa panellenica. Tuttavia, che si trattasse di pratiche sacrificali cruente, come nel caso della colonia greca di Massalia, o di forme catartiche più attenuate, come quella descritta per il contesto ateniese, il rito del pharmakos non era di certo riducibile, come potrebbe sembrare, al presunto carattere irrazionale dell’universo religioso e simbolico ellenico.


L’etnologia classica ha dedicato in passato grande attenzione alle cerimonie sacre e ai riti di passaggio, un cult etnografico e fondativo che, sebbene non circoscriva più gli interessi attuali della disciplina, ha di fatto cristallizzato nel tempo l’identità stessa dell’antropologia, intesa come studio dei fenomeni folclorici, tradizionali e sacrali presso popolazioni agli antipodi dell’occidente moderno. Ebbene, le osservazioni del francese Arnold Van Gennep – autore del più brillante e sistematico studio sui riti di passaggio nel 1909 – sulle funzioni individuali e collettive delle cerimonie sacre non sfuggirono a Victor Turner, antropologo scozzese che nei primi anni Cinquanta stava conducendo ricerche sul campo tra gli Ndembu dello Zambia. L’aspetto chiave delle pratiche rituali, stando alle loro disamine, consisterebbe – mi sia concessa la semplificazione – nel far emergere preoccupazioni collettive in merito alla possibilità di continuare a vivere in un contesto socioculturale coeso, puro e ordinato; il rito, in tal senso, identificherebbe, ma soprattutto renderebbe visibile, in modo più o meno simbolico, un grattacapo comune che deve essere risolto o, nel peggiore dei casi, scongiurato. Semplificando ulteriormente, il rito mantiene vivo un dialogo sociale intorno a problemi ricorrenti nel tempo: che si tratti di accordare lo status di “adulto” a un giovanotto o della preparazione di un raccolto agricolo, le pratiche rituali hanno fondamentalmente a che fare con i cambiamenti significativi di un mondo.


La questione, a questo punto, riguarda l’efficacia del rito. Si potrebbe infatti obiettare che il malaugurato pharmakos, espulso dalla città o addirittura sacrificato agli dei, in alcun modo – da un punto di vista “razionale” – avrebbe potuto condizionare la fertilità dei suoli e la resa delle semine. Obiezione acuta. Tuttavia ci stiamo facendo distrarre dall’ombra sulla parete: è la luce che la proietta a interessarci. Il pharmakos, evidentemente, non produce alcun effetto materiale sulla realtà: al contrario, contribuisce a riprodurre e ricordare, in forme condivise, le cause complesse e non-solo-umane di una potenziale carestia – intemperie climatiche, malattie, scarsa fertilità, parassiti e via dicendo. Detta altrimenti, la sua figura incarna e rende manifesti timori e tensioni sociali sulla sopravvivenza individuale e collettiva: l’identificazione della vittima, a sua volta, rispecchia in modo contrastivo i valori culturali su cui si fonda la comunità, e li convalida pubblicamente. Si tratterebbe così di una “terapia” contro la crisi della frammentazione sociale e, in special modo, contro il rischio di un’apocalisse culturale, vale a dire la fine di una comunità. D’altra parte, come suggerisce la stessa etimologia della parola “crisi” – dal greco krísis, “decidere” –, l’espulsione del pharmakos dalla città sembra voler dire: d’accordo, siamo consapevoli di questa realtà che muta continuamente, abbiamo ricordato i rischi che corriamo; ora allontaniamo le nostre paure e decidiamo di andare avanti come un gruppo unito. L’efficacia del farmaco è analitica, non fattuale.


È interessante notare come la paura della fine sia oramai connaturata al sentire contemporaneo. In un certo senso, è il sintomo più evidente di tutta una serie di sconvolgimenti che, all’alba del millennio che avrebbe dovuto sancire il dominio del progresso umano, erano ritenuti quanto meno improbabili o, peggio, considerati irrilevanti. Le tracce di certe preoccupazioni, d’altronde, erano già rinvenibili in nuce nei filoni letterari novecenteschi dedicati alla fantascienza, alla distopia e ai cosiddetti contesti post-apocalittici – generi narrativi che, non a caso, sono letteralmente esplosi a partire dagli anni Settanta e la cui mercificazione, soprattutto cinematografica, si rivela oggi particolarmente proficua. Restando nel gergo, si ha come la sensazione di esser giunti all’“epilogo” della nostra storia umana, minacciata su più fronti da crisi e fenomeni complessi, incontrollabili, di cui è difficile rintracciare le responsabilità. A mio parere, è proprio quest’ultimo aspetto – vale a dire l’identificazione del “colpevole” – a costituire l’origine dei timori, delle ansie e degli attriti odierni. In sostanza: con quale pharmakos rispondiamo alla crisi?


Improvvisiamo dunque una nuova disciplina: la Farmacologia delle Apocalissi Sociali. Nome sobrio, non c’è che dire. Come attenti studiosi di questo prestigioso ramo del sapere, ci soffermeremo sulle forme rituali con cui le società contemporanee discutono il rischio della fine e ne scongiurano la paura; inoltre, cercheremo di identificare quali terapie vengono impiegate per l’identificazione delle responsabilità e il ripristino della coesione sociale. Procediamo con delle osservazioni preliminari: pensando al cambiamento climatico, ai conflitti armati, all’aumento della popolazione, ai mercati finanziari destabilizzati, alla povertà, al precariato lavorativo e ai fenomeni migratori, le narrazioni dominanti sembrano essere accomunate dalla somministrazione – specialmente da parte delle istituzioni politiche ed economiche – di retoriche semplificatorie, in cui si mescolano molecole di parzialità, intolleranza, de-responsabilizzazione ed estremismo ideologico. Da questo composto esplosivo emerge così la vittima sacrificale, il capro espiatorio, il pharmakos di turno: l’immigrato, il russo, l’afroamericano, il fruitore del reddito di cittadinanza, il runner in pandemia, lo studente senza mascherina, il cameriere che non vuole lavorare, la persona che inquina con l’automobile e via dicendo – la lista è in costante aggiornamento. Per quale ragione però i sintomi, dopo ogni somministrazione, sembrano peggiorare?


Questo numero di Alea indaga in modo preciso l’impiego rituale e terapeutico dell’Odio, un “farmaco” che ha sempre trovato facile diffusione e propagazione in risposta a un possibile epilogo delle nostre società. Se da un lato è plausibile pensare che la sua prescrizione “culturale” sia motivata dalla necessità esistenziale di trovare un colpevole, superare la crisi e ritrovare la coesione collettiva, dall’altro appare evidente come la qualità “analitica” di questo pharmakos sia del tutto inefficace: l’assunzione quotidiana dell’Odio neutralizza, infatti, qualsiasi spiegazione condivisa della complessità, facilitando al contrario la coagulazione di giustificazioni semplicistiche che promettono soluzioni “fattuali” immediate. Il malessere permane e l’inevitabile abuso del farmaco sfocia nella dipendenza: una vera e propria tossicomania dell’odio. Questo quarto capitolo della rivista intende affrontare lo stallo farmacologico in cui sembriamo immersi, procedendo con una sorta di “etnoscopia clinica” dell’odio, volta a esaminarne le modalità di assunzione, le forme di dipendenza che produce, i suoi effetti collaterali, nonché gli eventuali impieghi alternativi.


La sezione delle Ballate antropologiche si apre con una meticolosa e pungente disamina di Stefan Ecks in merito all’invasione del Campidoglio statunitense nel gennaio 2021: l’autore mostra come la retorica di Donald Trump, caratterizzata da un insistente atteggiamento divisivo, abbia alimentato una violenta aggressione alla storia stessa degli Stati Uniti d’America; in tal senso, viene sottolineata la capacità che il discorso e le rappresentazioni politiche hanno di diffondere menzogne, ostilità e manipolazioni della realtà. Nel contributo successivo, Damiano Gallinaro ci conduce nel contesto post-genocidio di Srebrenica, nei Balcani del Sud: con grande sensibilità etnografica, l’autore ripercorre le storie di vita di alcune donne sopravvissute allo sterminio del 1995, dando rilievo agli effetti collaterali e indesiderati dell’odio etnico diffuso in quegli anni. Il dramma personale, affettivo e sociale di cui ci è offerta la testimonianza mette così in luce i lunghi strascichi provocati dall’assuefazione all’intolleranza, ma anche la forza e il coraggio con cui queste donne hanno cercato di rigenerarsi nella memoria e nel dialogo. Infine, Chiara Musu sottopone all’attenzione etnografica la realtà di una confraternita misogina online, il Forum degli Incel – dall’inglese involuntary celibacy, “celibato involontario”: nel quadro ricostruito dall’autrice, l’odio nei confronti delle donne – definite “non persone” dagli utenti del forum – emerge come il collante identitario di uomini che hanno avuto esperienze relazionali deludenti, frustranti o segnate dal rifiuto. L’immaginario maschilista e patriarcale del forum, di fatto, codifica e normalizza la dipendenza dalla misoginia come modalità per socializzare e rendere “digitalmente” coeso il gruppo, contribuendo in modo non indifferente a diffondere ulteriori rappresentazioni negative e denigratorie del genere femminile.


Nella sezione Suite, il lettore e la lettrice troveranno due validissimi integratori speculativi. Il primo, firmato dalle antropologhe Rosana Pinheiro-Machado e Lucia Mury Scalco, riflette sull’ascesa dei cosiddetti “populismi autoritari”, a partire da un’indagine etnografica condotta in una comunità a basso reddito di Porto Alegre, in Brasile: le autrici non solo illustrano brillantemente le ragioni socioculturali che, attraverso una silenziosa epidemia d’odio, hanno portato all’elezione di Jair Bolsonaro, ma sottolineano il ruolo pubblico dell’antropologia in quanto strumento di immersione e comprensione del quotidiano – specialmente nelle sue dimensioni più interstiziali, cioè quelle maggiormente trascurate dagli analisti politico-economici tradizionali. Il secondo contributo, a cura di Mondher Kilani, si presenta invece come un esame macroscopico dell’odio nella condizione moderna: soffermandosi sul carattere contingente e specifico di questo sentimento, l’autore procede nel rievocare le violenze estreme e gli stermini di massa del secolo scorso, spingendo la riflessione fino alla paradossale assenza di odio che, a ben vedere, ha reso possibile questi atti. Nel distanziamento sempre più marcato tra il carnefice e la sua vittima, Kilani intravede così le caratteristiche della nostra iper-modernità: una condizione che tende al superamento di ogni limite e che è in grado di sterilizzare persino la natura umana ed emotiva dell’odio.


Ad arricchire il quadro diagnostico, nella sezione degli Arabesque interdisciplinari, troviamo tre contributi illuminanti. La solida inchiesta di Lucrezia Quadri sulla lotta degli operai Gkn mostra il carattere innovativo e solidale di un’occupazione che ha saputo travalicare i confini della fabbrica, integrandosi con altri movimenti e punti di vista critici sul capitalismo contemporaneo. All’odio delle pratiche neoliberiste si contrappone così un’ostilità collettiva e auto-organizzata estremamente feconda e generativa, che potrebbe costituire il primo passo verso una reale trasformazione sociale dal basso. A seguire, troviamo l’appassionato lavoro di Caterina Capelli sulle tifoserie calcistiche e il movimento Ultras italiano, nel quale l’autrice – grazie all’apporto dei numerosi e puntuali riferimenti che ha raccolto – problematizza il ruolo dell’odio nelle diverse declinazioni del tifo, siano esse rituali, simboliche o violente. Se da un lato l’amore per una squadra sembra non poter fare a meno di un nemico da odiare, dall’altro l’autrice si interroga sui tentativi recenti di sedare e normare i lati più «bruti e selvaggi» dello sport, liquidando aspetti che, a ben vedere, sono espressione storica e culturale della nostra società. Chiude la sezione l’intervento a quattro mani di Federica Tessari e Roberto Carli sulla demolizione del Teatro Nazionale di Tirana avvenuta a maggio 2020: il contributo scandaglia criticamente le forme di progettazione e rinnovamento urbano della capitale albanese, rivelando le ingiustizie sociali che continuano a caratterizzare l’operato politico locale. Il caso del Teatro Nazionale, che ha suscitato una forte ondata di dissenso, è assunto come l’ennesimo dato patologico di una classe politica e finanziaria orientata da ragioni puramente speculative: l’odio per l’eterogeneità urbana e culturale, nonché per le forme di dialogo democratico, diviene così il paradigma di un’idea di sviluppo fortemente marginalizzante.


La Fantasia fotografica, a cura di Stefania Zanetti, raccoglie contributi originali, sintetizzati e rimescolati in formule visuali inedite. Attraverso l’impiego di un’intelligenza artificiale, le rappresentazioni iniziali sono state infatti rimesse in circolazione all’interno di un algoritmo in grado di produrre autonomamente nuove immagini. Interrogandosi sulle modalità con cui quotidianamente partecipiamo – in modo più o meno consapevole – alla diffusione di discriminazioni, intolleranze e pratiche di esclusione, la sequenza presenta una serie di variazioni visuali inquietanti ed enigmatiche. Vengono così testate le qualità allucinatorie e psicotrope dell’odio, una sostanza in grado di alterare profondamente la percezione del reale.


In conclusione, il Divertimento letterario accoglie una nuova pillola narrativa di Luca Petrassi: con lo stile limpido e affilato che abbiamo già conosciuto, l’autore riscrive la vicenda dell’assassinio del re Umberto I di Savoia in tre paragrafi fulminei – tre come i colpi sparati da Gaetano Bresci al monarca. Un gesto vendicativo, carico di odio, ma anche gravido di ideali sociali per cui valeva la pena sacrificarsi.


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