Benedetta finanza

Carlo Ludovico Severgnini / Variazioni

29 giugno 2022


Marinus van Reymerswaele (1490-1546), The Banker and Its Wife.



Un uomo, chino su un tavolo, sposta alcuni spiccioli su una scacchiera, prendendo appunti su un piccolo quadrato di pergamena. La fioca luce del crepuscolo gli suggerisce di sbrigarsi con le equivalenze per non consumare una preziosa candela. Contate le ultime monete, soddisfatto rimette il denaro in una sacca che poi sistema in un baule alla presenza del suo superiore, a cui deve consegnare il foglietto con i conti della giornata. Adesso non è più un problema suo, saranno altri a sbrigarsela mentre lui si gusterà la sua zuppa calda.


Abbiamo fatto la conoscenza di uno dei contabili di un importante prelato, il vescovo di York, che ha un piccolo problema logistico: deve far arrivare a messere il Papa la colletta di fondi che il pontefice ha richiesto per finanziare nuove guerre contro gli infedeli. Purtroppo, l’internet home banking ancora non è una realtà nell’Europa del XIII secolo e mandare un gruppo di cavalieri con il denaro è troppo rischioso, perché, per quanto numerosa e leale la scorta, se circolasse la notizia che un forziere con quindicimila sterline trotterella per l’Europa sarebbe facile preda per chiunque1. Il devoto vescovo si sta scervellando per trovare una soluzione e un suo anziano consigliere, che di esperienza ne ha, assicura che anni prima, quando si era recato in pellegrinaggio a Roma, aveva visto che il signor Papa aveva ricevuto ingenti somme inviate da ogni angolo del continente. Come avevano fatto migliaia di lire a finire nelle casse papali da Buda? È semplice: sono stati quei diavoli d’italiani.


Dalla fine del secolo XI la Chiesa occidentale ha individuato nel vescovo di Roma il proprio capo (la questione è un po’ lunga, ma diciamo che ha vinto la battle royale della spiritualità europea), che ha iniziato a portare avanti la propria missione, cioè creare una società cristiana universale. Per mandare avanti la baracca bisogna spedire missionari in ogni angolo del mondo, preti a mettere d’accordo altri preti su alcuni aspetti della teologia cristiana ed eserciti contro un sacco di gente che ha bisogno di un po’ di Gesù ad alti dosaggi. In breve, bisogna spendere soldi e spenderne tanti. Il Papa ha tali fondi perché è titolare di numerose entrate in qualità di vescovo e sovrano (il centro Italia è suo dominio, ha i suoi vassalli e i diritti di ogni altro signore laico). In più, riesce a trovare ragioni inconfutabili per cui dovrebbe riceverne altri dai principi cristiani di ogni rango, che in cambio di alcune garanzie spirituali e giuridiche accettano di pagare, soprattutto in particolari occasioni (come andare a liberare Gerusalemme). Infine, alcuni regni sono vassalli del Papa (per esempio, il regno di Sicilia e quello d’Ungheria) o hanno la consuetudine di versare a Roma un tributo (come facevano gli anglosassoni, tradizione poi passata ai normanni inglesi) e ogni signoria ecclesiastica d’Europa, se richiesto, deve mandare soldi alla curia romana.


Il denaro c’è, ma va spostato fino a Roma e da lì altrove: una bella seccatura andare in giro con sacchi colmi d’argento, si rischia di incontrare il Padreterno un po’ precocemente. C’è una categoria di persone che, da qualche anno, ha lo stesso problema del Papa. Si tratta dei mercanti che frequentano le fiere, eventi nei quali avvengono le transazioni più consistenti, legate al commercio a lunga distanza. Il grande vantaggio delle fiere è il sistema-circuito: ogni città che ne ospita una contribuisce a specializzare uno dei raduni come piazza di scambio per certi beni, che vengono acquistati e venduti in gran parte dagli stessi operatori che si sono occupati di smerciare altri prodotti solo poche settimane prima in una cittadina non così distante. Il circuito più ricco e famoso è il sistema di fiere dello Champagne, sei incontri annuali concentrati in pochi mesi e in quattro città, il tutto regolato da un calendario e da un tariffario di dazi e imposte deciso periodicamente dal conte di Brie e Champagne.


Con il sistema fieristico, il denaro percorre pochi chilometri a fronte delle numerosissime transazioni a cui partecipa. Un mercante che abita lontano, però, non vuole rischiare, alla fine di ogni stagione fieristica, di essere depredato del suo argento sulla via del ritorno e talvolta non ha neanche con sé la liquidità necessaria ad affrontare le compravendite. Per ovviare a questo inconveniente può andare da un notaio insieme a un banchiere-cambiavalute e impegnarsi a pagare il debito in un altro luogo, dove dispone di moneta. L’atto si chiama instrumentum ex causa cambii e collega un atto creditizio a favore del mercante a un atto di cambio (le valute nell’Europa medievale sono tantissime e l’attività di cambio era necessaria e molto remunerativa). Il mercante ora può effettuare tutti gli acquisti del caso e il banchiere manda l’atto a un suo socio in affari nella città dove il mercante ha liquidità sufficiente a saldare il debito nella valuta indicata dal contratto. Sono i mercanti-banchieri italiani a utilizzare su larga scala questo sistema, effettuando attività bancarie con i proventi commerciali. Il fenomeno esplode a inizio Duecento, quando i mercanti toscani iniziano a strutturare le loro compagnie (società commerciali) dislocando nelle città europee, sedi di mercati e fiere, i propri impiegati (detti “fattori”), con i quali comunicano per mezzo di sistemi postali semi-privati. Parallelamente, la credibilità degli attori economici inizia a essere un valore a cui si dà rilievo e non è più necessario andare da un notaio, tutti sanno che quel mercante onora i propri impegni: basta una lettera in cui si specificano i dettagli dell’accordo. L’instrumentum ex causa cambii viene quindi sostituito dal suo equivalente privato, la lettera di pagamento, che a sua volta viene affiancata e poi surclassata dalla lettera di cambio, antenata della moderna cambiale. Funziona così: quando un debitore deve pagare una somma in una certa valuta e in un luogo diverso a un beneficiario, si può rivolgere a un banchiere (detto traente), che impartisce l’ordine a un corrispondente sulla piazza di pagamento (trattario) di versare quanto stabilito al creditore beneficiario.


Come notato dal consigliere del vescovo, le tecniche sviluppate dai banchieri e dai mercanti italiani rispondono bene alle necessità del Papa. Prima grazie a intermediari romani e locali, poi attraverso le super-compagnie toscane e lombarde le finanze pontificie riescono ad aspirare enormi quantità di denaro da tutta Europa. Anche i banchieri ne beneficiano, lucrando su ogni incarico ricevuto e approfittando del grande prestigio (e peso politico) che porta essere campsores domini papae, “banchieri di messere il Papa”, cosa che permette di mettere le mani su un bene prezioso, cioè tutte le lettere di cambio prodotte per gli affari papali. Anche la lettera in sé, infatti, diventa merce prima e moneta vera e propria poi, aprendo le porte alla finanza moderna: le piazze fieristiche si adattano e intere settimane vengono dedicate al saldo e allo scambio di lettere (insieme alla speculazione su questi “prodotti finanziari”).


La simbiosi tra l’istituzione ecclesiastica e la finanza sembra perfetta. C’è, però, una piccola questione chiamata usura. Il Papa, in quanto vicario di Cristo, dovrebbe vigilare sui comportamenti del suo gregge e Gesù, in più passi dei Vangeli, non sembra molto tenero con chi è avido: il discorso della montagna (Mt, 5, 1-29) e il sermone della pianura (Lc, 6, 17-49) contengono esplicite richieste di generosità e disinteresse (Lc, 6, 34: “E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, che merito ne avrete?”). Non dimentichiamo, poi, che Gesù caccia i mercanti e i cambiavalute dal tempio, solo per citare gli eventi più noti. Come conciliare questo con i profitti di mercanti-banchieri che la stessa Chiesa impiega e da cui, a un certo punto, inizia ad attingere i propri vescovi? Nel 1179 Papa Alessandro III con il Concilio Lateranense III, tra le altre cose, dichiara che l’usura è peccato gravissimo che comporta la scomunica.


Sembra che non si possa sfuggire da questa difficoltà, ma Alessandro III, così come i suoi successori, non è isolato dal mondo e sa come funzionano le cose: basta specificare meglio cosa voglia dire “usura”. Dalla fine del XII secolo, in corrispondenza dello sviluppo della “economia di carta” delle fiere, il pensiero filosofico inizia a distinguere tra interesse legittimo e usura, che è, in buona sostanza, un guadagno eccessivo e ingiustificato, manifestazione d’avidità. I pensatori più attivi sul tema provengono dall’ordine dei Frati Minori, comunemente noti come francescani: è un ordine mendicante ben inserito nel tessuto sociale delle città italiane ed europee e molto presto ha sviluppato una propria branca per i laici, il Terzo Ordine. Nelle città abbondano i commercianti e i Minori possono osservare molto da vicino la realtà delle tecniche di mercatura attraverso i propri confratelli laici, quando non siano proprio i chierici a provenire da famiglie mercantili (come, tra l’altro, Francesco d’Assisi).


L’innesto mercanti-francescani e la convergenza di interessi tra la Chiesa e i banchieri produce rapidamente una fitta letteratura perché c’è da dare risposte ben giustificate, Bibbia alla mano, alla popolazione, un po’ disorientata dal fatto che dei cristiani prestino a interesse come gli ebrei. Per esempio, nel primo Duecento Gregorio IX è costretto a richiamare più volte i baroni e i vescovi francesi perché smettano di rapire e torturare i prestatori (anche ebrei) solo per farsi cancellare i debiti: se l’interesse non è eccessivo, il contratto va onorato. Non solo, c’è anche una cifra stabilita che delimita l’interesse legittimo: tra il 18 e il 20% annuale. Le argomentazioni si basano tutte sulla differenza tra profitto e rendita e dunque l’idea di “spirito usuraio”. Tra i profitti rientrano gli interessi legittimi perché sono guadagni leciti derivanti dall’esercizio di un mestiere. Prestare a interesse a un’altra persona è legittimo perché ci si priva per un certo periodo di tempo di una quantità di capitale utilizzabile ed è dunque giusto chiedere indietro un po’ più della somma iniziale: ci si è esposti a un rischio e si rinuncia a cogliere altre opportunità con quella porzione immobilizzata di liquidità. L’usura, invece, è la richiesta di interessi smodatamente elevati e senza correre rischi. Ma come stabilire questo? Per i francescani è semplice: i loro lunghi trattati distinguono molte casistiche e in ultimo lasciano la parola alle comunità di mercanti onesti, che sanno discernere per esperienza professionale.


Le teorizzazioni dei francescani di fine Duecento traghettano il pensiero filosofico e la concezione comune a una morale economica che accetta e legittima le attività bancarie fino alla fusione perfetta con l’istituzione ecclesiastica: nel 1515 Leone X con la bolla Inter multiplices dichiara che i Monti di Pietà, banche fondate dai francescani e dedite al microcredito dietro la consegna di un pegno, sono un’attività “buona e necessaria” e per loro è lecito chiedere un interesse come onere di gestione.



Note:


1 Per intenderci, comprare una modesta casa in muratura e legno attorno al 1250 costava 50 lire sterline e la paga media annuale di un lavoratore non specializzato era di circa 3 lire. La ruota di pane da circa 4 kg (detta gallon-loaf), la razione minima di cibo per una settimana, costava un denaro, ossia 0,0042 lire (1/240).



*Carlo Ludovico Severgnini si è laureato in Storia e Civiltà all’Università di Pisa e in Storia e Paleografia alla Scuola Normale Superiore. Ora prosegue le ricerche di storia economica con il dottorato presso l’Università di Bologna.


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